«La coalizione ha colpito i soldati di Assad»
Tre soldati uccisi e tredici feriti peseranno sul caotico futuro siriano. Non una novità nel mattatoio mediorientale, se non per il responsabile del raid: a colpire il campo militare governativo di Saeqa, nella provincia orientale di Deir Ezzor, sarebbe stata la coalizione anti-Isis guidata dagli Usa. Quattro jet e nove bombardamenti domenica hanno ucciso soldati di Assad e distrutto un deposito di armi e veicoli militari: lo ha reso noto ieri l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, associazione dichiaratamente schierata contro Damasco.
«Una palese aggressione che contraddice i principi della carta Onu», l’ha definita il Ministero degli Esteri siriano che chiede al Consiglio di Sicurezza di prendere misure immediate. Il governo non tarda a inserire il raid nella lunga serie di violazioni che secondo Damasco l’Occidente compie: se il governo non ha mai dato il via libera ai raid nel proprio territorio, allora il fronte guidato da Washington sta agendo da fuorilegge. Ieri il presidente Assad lo ha ripetuto ieri, in riferimento al voto favorevole del parlamento di Londra all’intervento in Siria: «[I raid britannici] saranno deleteri e illegali e sosteranno il terrorismo, come successo dopo l’avvio dell’operazione della coalizione un anno fa», ha detto Assad al Sunday Times.
Ma a Deir Ezzor si è superato un limite invisibile: quella stessa coalizione che a Vienna accetta la presenza del governo al tavolo negoziale, in Siria lo bombarda. Gli Stati uniti hanno subito negato per bocca del colonnello Warren, portavoce della coalizione: «Non abbiamo condotto alcun raid in quella zona di Deir Ezzor. Abbiamo colpito a 54 km di distanza dove non c’è indicazione che ci fossero soldati siriani nelle vicinanze».
Se non è dato sapere quale bandiera battessero i jet del presunto raid anti-governativo, di certo quelle bombe smuoveranno ulteriormente acque già torbide: in vista dell’annunciato negoziato tra governo e opposizioni, previsto per gennaio, e dopo l’accordo russo-statunitense sulla lotta finanziaria all’Isis, le potenze mondiali lanciano le ultime frecce a disposizione per definire gli equilibri di potere nell’area. Lo fanno Londra, Washington e Parigi con le rispettive aviazioni; lo fa la Russia che provoca la Turchia mandando una nave da guerra nel Bosforo con a bordo un soldato armato di lanciarazzi. Lo fa Obama che nel discorso alla nazione di domenica ha paventato la chiusura del confine tra Siria e Turchia per ridare credibilità ad Ankara; lo fa l’Arabia saudita che oggi dà il via all’incontro tra opposizioni siriane: cento rappresentanti di diversi gruppi, ma non il Fronte al-Nusra, nonostante l’inquientante invito mosso dalla Coalizione Nazionale.
Il messaggio è per la Russia: nel futuro della Siria non c’è spazio per Assad. Una precondizione che non preoccupa troppo Mosca, disponibile a sacrificare il presidente pur di mantenere in piedi l’attuale sistema di potere, necessario agli interessi di Russia e Iran.
Gli stessi destinatari di un altro crudo messaggio: quello inviato dalla Turchia quando ha mandato 150 soldati alle porte di Mosul, ufficialmente per addestrare i peshmerga, ufficiosamente – dicono gli stessi ufficiali kurdi – per preparare la controffensiva sulla città. Domenica Baghdad ha reagito lanciando ad Ankara un ultimatum di 48 ore per ritirarsi, prima di vagliare «tutte le opzioni disponibili», incluso il ricorso al Consiglio di Sicurezza Onu.
Nonostante gli Usa abbiano chiesto ad Ankara di fare un passo indietro, la Turchia rimanda l’aut aut al mittente: in una lettera al premier iracheno al-Abadi il primo ministro Davutoglu ha garantito che non dispiegherà altri soldati fino a quando non sarà risolto quello che definisce un mero malinteso. Restano quindi in attesa al confine gli altri 350 soldati turchi da inviare a Bashiqa, nella base ora condivisa tra Ankara e i peshmerga di Erbil. Ma i 150 già entrati senza permesso restano dove sono. Nessun ritiro. La Turchia insiste: stiamo formando 2mila peshmerga e difendendo i 600 soldati già presenti per l’addestramento di iracheni sunniti (dispiegamento che Baghdad aveva approvato).
In realtà quello che difende è il rapporto privilegiato con il Kurdistan iracheno del presidente Barzani che domani volerà ad Ankara per discutere direttamente con il ministro degli Esteri Cavusoglu. Barzani è l’anti-Pkk, l’anti-Rojava, la barriera alle richieste del movimento di liberazione kurdo e il potenziale Stato cuscinetto contro le influenze iraniane nella regione.
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