Podemos crede alla «remontada»

Podemos crede alla «remontada»

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MADRID. Tic-tac, tic-tac…Il rumore del tempo che passa, della bomba ad orologeria che sta per scoppiare nelle mani della vecchia politica. Pablo Iglesias ha un talento comunicativo fuori dal comune, in grado di confezionare con due sillabe uno slogan capace di evocare l’imminenza del cambiamento. Un ticchettio inarrestabile, ma irregolare: velocissimo all’inizio (da zero a prima forza politica), poi sempre più stentato, e di nuovo martellante nell’ultima parte della campagna elettorale, contraddistinta da una rimonta che lascia aperti diversi scenari.

Il meccanismo è da calibrare. Ma a prescindere dai risultati di stasera, Podemos può vantare un merito indiscutibile. Ha saputo catalizzare, organizzare, esprimere la frustrazione di una cittadinanza prostrata da crisi e corruzione, e farne un progetto credibile di rinnovamento. Prima ancora che politica, Podemos ha saputo vendere speranza, che in un paese con la disoccupazione alle stelle e i tassi di disuguaglianza sociale tra i più alti della Ue, è una merce che va a ruba. Quindi, se oggi si parla di caduta del bipartitismo, bisogna sottolineare che l’ariete che ha scardinato il sistema è stata proprio la formazione nata dal seme del 15M. Queste le premesse. Oggi, lo spartiacque del voto, segnerà il passaggio dalla potenza all’atto, dalla politica parlata a quella fatta sporcandosi le mani; e in questo scatto sta l’incognita del partito.

Saprà Iglesias scendere sul terreno della realpolitik senza perdere l’essenza contestataria e senza cedere ad un isolamento narcisistico? Saprà mantenere le linee fondamentali del programma (già edulcorato) sotto la pressione dei poteri forti e portare avanti riforme che possano incidere sulla struttura, oltre che sulla forma della politica? E, come conseguenza, riuscirà a rafforzare l’immagine di partito oltre e indipendentemente dalla sua carismatica (e ingombrante) leadership? Per ora si può solo evidenziare il fatto che Podemos ha dimostrato una certa duttilità, che alcuni vedono come un punto di forza e di maturità, altri come un segno di debolezza.

Nel corso della loro traiettoria politica, la formazione viola ha smussato gli angoli più vivi del programma, assumendo una piega più istituzionale e di gittata più ampia. Nonostante le critiche, nell’evoluzione da megafono dell’indignazione ad aspirante al governo, si è trattato di un passaggio obbligato, specie con l’irruzione di Ciudadanos sulla scena come partito del «cambio tranquillo». Oggi Podemos non parla più di uscita dalla Nato (anzi, un ex generale vicino al Psoe si è unito al partito ed è stato designato come eventuale ministro della Difesa); né di evitare il pagamento del debito pubblico.

L’età pensionabile è tornata a 65 anni, e il sussidio universale è diventato un assegno integrativo per famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, solo per citare alcuni punti. Il saldo politico della scelta è incerto: se da un lato ha deluso la base più radicale (in parte rientrata in Izquierda Unida), dall’altro ha attratto i voti dell’elettorato di sinistra più moderato, tradizionalmente nell’orbita Psoe, che non a caso è stato vero avversario di Podemos durante la campagna.

Altri fattori hanno invece senza dubbio rallentato il ticchettio di Podemos: il passo falso di uno dei fondatori e ideologi, Juan Carlos Monedero (un caso di elusione fiscale per una somma di denaro percepita per una consulenza politica al governo venezuelano), che ha avuto un forte impatto simbolico. Il fisiologico logorio di una corsa elettorale sovraesposta mediaticamente, che dura senza interruzioni dalle europee del maggio 2014.

E infine l’errore politico e strategico (determinato anche da un colpevole egocentrismo) di rifiutare l’alleanza su scala nazionale con Izquierda unida (ci saranno patti puntuali in alcune regioni, tra cui la Catalogna, dove infatti si prevede che Podemos raccolga i risultati migliori).

La decisione risponde all’esigenza di non diluire l’immagine di Podemos e proteggerla da emanazioni della vecchia politica, anche se Iu – quinta forza politica, che corre in coalizione con altre formazioni di sinistra sotto la sigla di Unidad Popular — di «vecchio» ha solo il nome: la guida del giovane Alberto Garzón (uno dei esponenti più brillanti della nuova stagione, anche anagrafica, della politica iberica) ha inaugurato un nuovo corso nel partito, che infatti ha chiuso la campagna con un’impennata, anche grazie al presidio di internet. Se i social media possono essere presi come termometro del gradimento nella nuova era politica, Garzón è stato il candidato che meglio ha chiuso la campagna.

Il leader di Iu è il politico più influente e meglio valutato in rete (suo anche il tweet più rilanciato della campagna), dove Unidad popular ha fatto registrare una popolarità inaspettata. E anche fuori dal web, Iu lancia segnali incoraggianti: il meeting di Malaga dei giorni scorsi è stato uno dei più partecipati in assoluto di tutta la campagna.

Ma il bastone tra le ruote di Iu è la legge elettorale: le regole d’assegnazione dei seggi frenano a priori un possibile exploit del partito, che, con l’entrata in gioco di Podemos, rischia persino di arretrare rispetto alle scorse elezioni.



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