L’«anonimo» che rischia di aiutare Al Sisi

L’«anonimo» che rischia di aiutare Al Sisi

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Magari non sarà di comodo la verità che si sta apparecchiando sul caso Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso al Cairo poco più di due mesi fa. Ma sarà di riserva.

È l’espressione che viene in mente leggendo le rivelazioni anonime pubblicate da la Repubblica – ma in parte arrivate non solo a la Repubblica. Perché appaiono sconcertanti e, insieme, verosimili e non credibili.

Intanto perché a parlare è un «anonimo» e non basta evocare, ai fini dell’inchiesta, la sceneggiatura di una talpa o gola profonda, così almeno la pensa giustamente la Procura di Roma.

Tuttavia la descrizione delle torture inflitte sul corpo di Giulio Regeni con particolari raggelanti e forse inediti, che mostrano una conoscenza diretta dei risultati autoptici (egiziani ed italiani) se non addirittura di una partecipazione alle torture medesime, rendono le informazioni dell’anonimo verosimili.

Assai meno credibile invece è la descrizione della partecipazione diretta, personale, del generale-presidente Al Sisi alle riunioni per decidere detenzione, spostamento di prigioni e persecuzioni corporali per Giulio Regeni. Naturalmente non già perché Al Sisi sia innocente: è infatti il principale responsabile politico del sistema di sparizioni forzate, torture ed uccisioni in atto dal golpe militare dell’estate 2012 da lui guidato.

Altro che «caso isolato» come ha più volte dichiarato il ministro degli esteri del Cairo. Questa è la verità che non smettiamo come manifesto di denunciare da almeno quattro anni, nonostante le vergognose aperture del presidente del Consiglio Matteo Renzi che considera Al Sisi l’esempio positivo e luminoso del nuovo che emerge in Medio Oriente.

È il coinvolgimento personale, diretto, che non convince nelle decisioni sulla persecuzione e fine di Giulio Regeni.

Un dittatore militare di un Paese di 80milioni di persone ha ben altri mezzi e manovalanza in abbondanza, capaci di mettere la distanza necessaria tra sé e i crimini che ordina. Altrimenti non si fa che accreditare ulteriori depistaggi, a partire da quello infame, ripetutamente quanto dolorosamente smentito dalla famiglia, di una appartenenza di Giulio Regeni ai Servizi segreti, quando invece si occupava di nuovi sindacati; questione certo sensibile per il regime militare egiziano ma non al punto da coinvolgere direttamente lo stesso Al Sisi nella persecuzione; alla fine di un italiano a fronte delle aperture politico-economiche di Matteo Renzi.

Il tutto «anonimo» precipita poi sull’arrivo degli investigatori egiziani del Cairo, mentre il ministro Gentiloni in Parlamento alza la voce, mettendo le mani avanti che «o c’è una svolta dell’Egitto o arrivano contromisure»; con la risposta ambigua, disponibile alla verità di Al Sisi, che rilancia sull’egiziano «sparito» in Italia.

Siamo dunque ai bordi di una verità che si prepara, non di comodo ma di riserva.

E dopo l’intervista ad Al Sisi di Mario Calabresi e la messa in scena del piatto d’argento servito con documenti ed effetti personali di Giulio Regeni, ritrovati nel covo dei «suoi assassini» e tutti uccisi – versione subito fornita dal ministero degli interni che poi in questi giorni ha smentito se stesso – siamo arrivato all’ultimo dei paradossi: che le rivelazioni dell’«anonimo» sul ruolo diretto e personale del generale-presidente egiziano, così poco credibili, rischiano alla fine di aiutare lo stesso «innocente» Al Sisi. Tanto che si prepara a consegnare come capro espiatorio il capo della polizia di Giza, il criminale torturatore di mestiere Khaled Shalaby.

Ed ecco allora che sullo sfondo riemerge anche il depistaggio sul «complotto».

Tra le tante menzogne annunciate dal Cairo – furto, a sfondo sessuale, litigio personale, servizi segreti, perfino traffico di materiale archeologico, ecc. ecc. – quello che probabilmente sarà nuovamente tentato sarà quello «islamista».

Il regime egiziano non è mai riuscito a sostenerlo più di tanto, visto tra l’altro che l’Isis opera le sue pratiche di morte con diverso copione propagandistico, e che i Fratelli musulmani – accomunati all’Isis da Al Sisi – di cui si è voluta accreditare una residua capacità d’infiltrazione nell’intelligence del regime, in realtà sono tutti in galera, se non condannati a morte ma soprattutto hanno governato nemmeno 12 mesi, inimicandosi tutti e sono stati abbattuti dai servizi segreti – quelli sì ancora in continuità con il precedente regime di Mubarak – e dai militari che hanno tradito il giuramento al presidente Morsi, leader della Fratellanza ora in carcere e condannato a morte. Altro che infiltrazione.

L’unica vera novità che sembra scantonare dal clima di menzogne altalenanti che arriva dall’Egitto e non solo, è l’editoriale di domenica scorsa del direttore di Al Ahram Mohammed Abdel-Hadi Allam. Al Ahram è la storica e autorevole testata laica egiziana, legata all’esperienza di Nasser, ma anche di Mubarak, alla fine approdata alle Primavere arabe e poi, contraria all’avvento – elettorale – al potere dei Fratelli musulmani, è diventata sostegno della loro destituzione violenta per mano del generale Al-Sisi che, fin qui, hanno sostenuto.

Domenica Al Ahram, testata di riferimento dell’opinione pubblica non islamista,ha preso le distanze dai depistaggi del regime, ha chiesto la verità rappresentando lo spettro disastroso di una rottura economica con l’Italia e, soprattutto, ha evocato la rivolta popolare che dal novembre dicembre 2010 al marzo 2011, sconvolse tutto il mondo arabo e in modo radicale l’Egitto.

Lo ha fatto in modo inusitato, accomunando il corpo martoriato di Giulio Regeni a quello di Khaled Said – lo aveva già fatto la madre di Khaled – il giovane ucciso nell’estate del 2010 e diventato il simbolo della rivolta di Piazza Tahrir contro il «faraone» Mubarak che vide insieme istanze popolari giovanili (laiche ma anche islamiste).

Eccola la novità, la scesa in campo di un nuovo movimento giovanile che, sotto il tiro della repressione del nuovo regime, torna ad identificarsi nella protesta e in nome di Giulio Regeni.



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