Bombe dell’Isis sugli sciiti

Bombe dell’Isis sugli sciiti

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Tre bombe nel giro di poche ore hanno colpito ieri i quartieri sciiti di Baghdad, una dopo l’altra hanno centrato il cuore del movimento sadrista: una carneficina, con il numero dei civili uccisi che in serata arrivava a toccare le 100 vittime. Il primo ordigno ad alto potenziale è esploso in mattinata, nell’affollato mercato Areeba di Sadr City: almeno 65 le vittime, di cui la gran parte donne perché la bomba era posizionata davanti ad un salone di bellezza.

Nel pomeriggio altre 25 vittime, stavolta nel distretto di Khadimiyah, anche questo a maggioranza sciita, violato da due bombe esplose nel giro di pochi minuti. Poco dopo è toccato al quartiere di al-Adl: altri 5 morti. Le immagini che ieri arrivavano da Baghdad raccontavano la strage: corpi senza vita coperti di sangue, ambulanze che facevano la spola, cittadini che aiutavano a portare via i feriti verso gli ospedali, fumo nero che si alzava dalle macerie.

Già nel pomeriggio era giunta la rivendicazione: a colpire è stato, di nuovo, lo Stato Islamico. Da mesi l’Isis riesce a raggiungere indisturbato la capitale, grazie a cellule sparse per tutto il paese che mostrano un’elevata capacità di organizzazione e movimento. I numeri – spaventosi – li dà l’Onu: solo ad aprile 741 iracheni sono morti in atti di terrorismo (di cui 410 civili), 1.374 quelli feriti. Buona parte delle vittime si registrano a Baghdad dove in 30 giorni hanno perso la vita 232 civili. Il mese prima i morti erano stati 1.119.

Gli uomini del “califfo” non sono relegati nell’ovest del paese, nelle province martoriate di Anbar e Ninawa, sebbene proprio ieri le autorità nazionali irachene celebrassero le vittorie siglate contro il nemico islamista: la campagna in corso ha permesso di strappare allo Stato Islamico due terzi dei territori occupati in Iraq dal giugno 2014. «La presenza di Daesh nelle città e le province irachene è in declino. Dopo aver occupato il 40% del territorio, ora ha in mano solo il 14%», ha detto il portavoce del governo Saad al-Hadithi smentendo i dati statunitensi che parlano di un 44% in meno di territori controllati.

L’Isis è ovunque perché la forza e l’efficacia del suo messaggio di propaganda non sono stati intaccati dalle città perse – Tikrit, Ramadi, Sinjar, Baiji – né dalle operazioni aeree della coalizione occidentale. Non è stato intaccato perché manca ancora nel paese, così come nella regione, una strategia unitaria e non-settaria che sappia calpestare le radici del successo dello Stato Islamico, in particolare tra la popolazione sunnita.

Non a caso l’Isis, quando colpisce la capitale, massacra i quartieri sciiti e il luogo simbolo del movimento sadrista, quello che più di altri sta rappresentando l’alternativa al disfunzionale governo centrale.

Subito dopo le esplosioni decine di persone hanno raggiunto i luoghi degli attentati, per gridare la loro rabbia e accusare delle continue carneficine il premier al-Abadi: «Dietro i massacri ci sono i politici, andatevene», hanno urlato i residenti di Baghdad. La frustrazione della gente la esprime in poche battute il 28enne Hussein Abdullah, parlando all’Ap di fronte al suo negozio di elettronica: «I politici si combattono in parlamento e dentro il governo mentre noi muoriamo ogni giorno».

Sta tutta qua la strategia più efficace, ma ancora assente, contro il sedicente califfato che si muove agile nei paesi della regione che uno Stato non ce l’hanno più, che sia la Siria, l’Iraq o lo Yemen: le divisioni settarie, innaturali, imposte da guerre civili e occupazioni occidentali hanno frammentato le società locali rendendole più permeabili al messaggio del “califfo” al-Baghdadi.

Per questo la soluzione messa sul tavolo dalla comunità internazionale appare fallimentare in partenza: la divisione istituzionalizzata degli Stati-nazione mediorientali in etnie e religioni, attraverso la creazione di sistemi politici federali, non farà altro che assoggettare staterelli a se stanti ai poteri regionali e internazionali e ai loro interessi particolari.

Specchio dello stallo figlio delle divisioni interne è la seconda città irachena, Mosul, da quasi due anni occupata e gestita dallo Stato Islamico. La più volte annunciata controffensiva non è mai partita, nonostante l’avanzamento delle truppe governative nella zona di Makhmour, 60 km a nord. Ma da marzo, quando Baghdad ha annunciato il via alle operazioni, solo cinque villaggi sono stati liberati dalla morsa islamista.

Ma Mosul resta centrale anche per le ambizioni italiane: tra poche settimane il dispiegamento di 500 militari italiani a protezione della diga sarà realtà. Lo ha annunciato lunedì il ministro della Difesa Pinotti, in visita nel paese e al contingente italiano di stanza nel Kurdistan iracheno (800 uomini che ne fanno il più numeroso dopo quello statunitense).

«Un’infrastruttura vitale per l’Iraq», la definisce il governo di Roma, a cui fanno eco gli Stati Uniti che da mesi avvertono del probabile crollo della struttura sul fiume Tigri, eventualità che metterebbe in serio pericolo quasi due milioni di iracheni, da Mosul a Baghdad. Un timore non condiviso da altri attori, a partire da Baghdad, che cerca di zittire gli allarmismi.

Di certo la diga è vitale per gli interessi economici italiani: i lavori per la messa in sicurezza sono stati affidati alla ditta Trevi. Un appalto dal valore totale di 273 milioni di euro per 18 mesi di lavoro.



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