Guerre, desertificazione e land grabbing costringono a migrare

Guerre, desertificazione e land grabbing costringono a migrare

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Nonostante siano aumentati, i numeri dei migranti che attraversano il Mediterraneo non sono tali da giustificare l’allarmismo dei leader europei. Tuttavia la risposta all’immigrazione, che è fenomeno strutturale vecchio ormai di almeno 25 anni e non transitorio, continua a essere di stampo repressivo e si impiegano risorse e uomini nel contrasto anziché nel soccorso. Tutto ciò, sostiene Stefano Liberti, giornalista, scrittore e regista, non fa altro che alimentare gli affari degli imprenditori del trasporto illegale e aumentare il rischio dei viaggi per i migranti.

 

Redazione Diritti Globali: Chi sono gli uomini, le donne, i bambini che arrivano dal mare?

Stefano Liberti: Nel corso degli ultimi due anni è aumentato il numero di migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, sia sulla rotta orientale verso la Grecia sia in quella centrale che dalla Libia punta verso la Sicilia. Si tratta di flussi misti di richiedenti asilo (persone che fuggono dalla guerra o da regimi dittatoriali – come ad esempio i siriani e gli eritrei) e di cosiddetti “migranti economici”. L’incremento è determinato da alcuni fattori congiunturali: oltre alla guerra in Siria, che ha prodotto circa quattro milioni di rifugiati (di cui una percentuale minima si dirige in Europa), la situazione di instabilità in Libia ha spinto molti stranieri che già erano immigrati in quel Paese a ridirigersi verso l’Europa, in cerca di maggiore sicurezza.

 

RDG: Parliamo di rotte: quali le più battute?

SL: Le rotte si adattano alla situazione sul terreno e alle misure di contrasto messe in atto dagli Stati riceventi: poiché la Libia nell’ultimo anno è diventata molto pericolosa, i siriani – che hanno una maggiore disponibilità economica – tendono ormai a viaggiare sulla rotta orientale. Gli accordi bilaterali firmati dalla Spagna con il Marocco e il Senegal, che prevedono rimpatri rapidi verso quei Paesi, hanno spostato il flusso che transitiva di lì sulla rotta Libia-Italia.

Il viaggio è gestito da una serie proteiforme di organizzazioni, non necessariamente consorziate tra loro. In generale ci sono due modi per affrontare il tragitto: pagare tutto a un passeur, che poi ripartisce verso organizzazioni locali (è il caso prevalente nella rotta orientale, dalla Turchia fino all’Europa centrale passando per i Balcani), oppure pagare ogni singolo tratto (prassi più prevalente per l’immigrazione che dall’Africa Occidentale si dirige in Libia e da lì in Europa).

L’Europa, a ogni modo, non è il luogo privilegiato d’immigrazione, sia perché le condizioni economiche del continente non sono le migliori, sia perché il viaggio costa molto ed è pericoloso. Per quanto riguarda gli africani, la maggior parte emigra verso altri Paesi del continente in crescita, come la Costa d’Avorio o l’Angola. Per quanto riguarda i siriani, la stragrande maggioranza dei profughi rimane nei campi situati nei Paesi confinanti, come Giordania, Libano o Turchia.

 

RDG: La risposta europea è, però, sempre la stessa: contrastare e chiudere.

SL: Purtroppo, questa è la triste realtà. Nonostante siano cresciuti, i numeri non sono tali da giustificare l’allarmismo dei leader europei: nel 2014 sono arrivati via mare in Europa circa 200 mila migranti, una cifra del tutto esigua rispetto ai 500 milioni di abitanti dell’Unione. Ciò nonostante, un’enorme quantità di risorse, di uomini e di mezzi finanziari sono impiegati in azioni di contrasto: erezione di muri (come quello tra il Marocco e le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, quello tra Bulgaria e Turchia o quello in via di costruzione tra Serbia e Ungheria); accordi polizieschi con Paesi terzi per bloccare le partenze ed esternalizzazione della frontiera (Tunisia, Marocco, Egitto), rafforzamento delle misure di chiusura.

Nonostante i numeri, la risposta europea rimane allarmistica, come se fosse in atto un’invasione o un esodo biblico. Il tentativo, tra luglio e agosto 2015, di attraversare l’Eurotunnel tra la Francia e l’Inghilterra da parte di poche centinaia di migranti ha addirittura spinto alcuni politici britannici a invocare l’intervento dell’esercito.

I richiedenti asilo non possono far altro che viaggiare illegalmente per arrivare in Europa e presentare la propria richiesta; le proposte di alcuni di permettere loro di richiedere asilo nelle ambasciate dei Paesi di transito sono rimaste lettera morta. Ciò alimenta gli affari degli imprenditori del trasporto illegale e aumenta anche il rischio dei viaggi.

 

RDG: L’Italia come si comporta?

SL: L’Italia, che è in prima linea sugli arrivi per la sua posizione geografica, ha una gestione sempre improntata all’emergenza, come se il fenomeno migratorio fosse un accadimento congiunturale e non qualcosa che strutturalmente esiste da ormai 25 anni. Non c’è quindi una politica di accoglienza.

Sui salvataggi in mare, nell’ottobre 2013 l’allora governo di Enrico Letta ha lanciato l’operazione Mare Nostrum, che ha permesso di salvare più di 140 mila persone in un anno. Avviata dopo due grandi naufragi al largo di Lampedusa, in cui sono morti circa 600 migranti, l’operazione è stata chiusa dal governo di Matteo Renzi dopo un anno, anche per le insistenze europee, che identificavano l’operazione come un fattore attrattivo dei flussi migratori. Oggi nel Mediterraneo è attiva la missione Triton, coordinata dall’agenzia europea per le frontiere Frontex, che è una missione di controllo dei confini e non di ricerca e soccorso. Inizialmente dotata di 3 milioni di euro al mese (un terzo di quello che l’Italia da sola metteva nell’operazione Mare Nostrum), Triton non poteva per mandato spingersi al di là delle 30 miglia marine dalle coste italiane. Solo dopo il naufragio del 18 aprile 2015, in cui sono morte circa 850 persone, il suo mandato è stato esteso e i mezzi rinforzati. L’Europa in generale vede comunque l’immigrazione come una minaccia e l’immigrato come un problema, invece che come una risorsa. In una società che invecchia, l’arrivo di potenziali lavoratori giovani e spesso istruiti sarebbe considerato normalmente un’opportunità, invece che un problema. Ma le risposte dei politici europei vanno in senso opposto.

 

RDG: Che ruolo ha oggi la Libia, devastata dalla guerra civile?

SL: La Libia ha un ruolo di Paese ricettore di migrazione da parte dell’Africa subsahariana e dall’Asia, oltre che come Paese di transito per chi vuole partire per l’Europa con i barconi. Dopo la caduta di Gheddafi, i numeri delle partenze sono aumentati perché è aumentata l’insicurezza in Libia; il che ha spinto molti immigrati in quel Paese, soprattutto subsahariani, a cercare fortuna in Europa. La mancanza di un governo centrale funzionante fa sì che proliferino varie organizzazioni che propongono il trasporto verso l’Europa, la maggior parte delle quali molto approssimative – il che ha fatto aumentare il numero di naufragi. È del tutto plausibile che la Libia manterrà questo ruolo nel prossimo futuro, perché non sembra delinearsi all’orizzonte una soluzione politica al caos che è seguito alla caduta di Gheddafi.

 

RDG: Che conseguenza hanno avuto sull’immigrazione le cosiddette “Primavere arabe”?

SL: Come conseguenza delle Primavere arabe c’è stato, nel 2011, un aumento delle partenze dalla Tunisia. Poiché era saltato il governo – e con questo gli accordi tra Roma e Tunisi – il mare si è aperto, permettendo a qualche migliaia di tunisini di partire. Si trattava per lo più di partenze all’avventura, senza un preciso percorso migratorio, tanto che molti di loro alla fine sono tornati in patria. Subito dopo, i nuovi accordi stretti tra i governi tunisino e italiano hanno bloccato quella rotta, riducendo il flusso. Il fatto che quest’immigrazione congiunturale sia stata di breve durata – e che molti di quanti erano venuti sono poi tornati indietro – sembra dimostrare che se non ci fossero le frontiere e ci fosse libertà di movimento ci sarebbe maggiore circolarità e non ci sarebbe invece quella specie di invasione di massa che molti profeti di sventura sembrano evocare.

 

RDG: Qual è lo stato dell’arte del fenomeno del land grabbing e quali le sue conseguenze, in termini di persone costrette a migrare?

SL: Cominciato intorno al 2008, come conseguenza delle crisi finanziaria internazionale, il land grabbing (in italiano: accaparramento delle terre) consiste nel passaggio da mano pubblica a mano privata di milioni di ettari di terra arabile nei Paesi del sud del mondo, in particolare nell’Africa subsahariana. Questi terreni sono per lo più usati per prodotti alimentari destinati ai mercati esteri o per prodotti energetici (i cosiddetti agro-carburanti); un fenomeno preoccupante, in quanto spesso i Paesi che cedono le terre hanno essi stessi un problema di sicurezza alimentare. Gli attori prevalentemente interessati dal fenomeno sono grandi gruppi privati, ma soprattutto grandi gruppi finanziari che, con la crisi del mercato azionario classico, hanno identificato nella terra un “bene rifugio” su cui investire con scarso rischio e ampio ritorno. Il problema è che i terreni ceduti dai governi ai gruppi privati stranieri non erano disabitati, ma utilizzati in molti casi dai contadini locali o dagli allevatori per le loro produzioni. In molti Paesi, la cessione dei terreni ha comportato una perdita dei mezzi di produzione da parte dei piccoli agricoltori e di conseguenza un’emigrazione verso i grandi centri urbani e un ingrossamento delle bidonville. Se continua, secondo un trend che per il momento appare immutato, il land grabbing sembra destinato a mutare gli equilibri agricoli mondiali e, a medio termine, a generare fattori di instabilità che potrebbero degenerare in conflitti aperti.

 

RDG: Parliamo di desertificazione: quanto e come incide sulle migrazioni?

SL: Il cambiamento climatico e l’avanzata dei deserti ha un ruolo nei pattern migratori. Molte popolazioni del Sahel sono costrette a migrare verso il Nord Africa, proprio perché i loro mezzi di sussistenza si riducono. Questi sono percorsi migratori distinti da quelli intrapresi da coloro che vogliono dirigersi in Europa, che hanno un progetto più strutturato, una maggiore disponibilità economica e appartengono ai ceti medi urbani con un medio o elevato livello di istruzione. La migrazione determinata dai cambiamenti climatici o dalla desertificazione per il momento vede spostamenti su scala locale, all’interno dei Paesi interessati o al massimo verso i Paesi vicini, proprio perché riguarda per lo più la popolazione rurale.



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