L’emergenza infinita di Mosul

L’emergenza infinita di Mosul

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Fuga dall’Isis. Per fuggire dall’Isis si è disposti a tutto, anche a sedare i più piccoli perché non piangano rivelando ai miliziani la propria posizione durante la fuga. Un esodo con ulteriori rischi: quelli di essere colpiti dalla Coalizione a guida Usa, come accaduto il 17 marzo, quando un bombardamento aereo ha ucciso quasi 200 persone

MOSUL. Una lunga fila di autobus e camion stracarichi di persone scorrono sull’asfalto corroso nel cuore di Hamman al-Alil, in direzione dell’omonimo campo profughi. La distesa di case in cemento dal tetto piatto porta i segni degli scontri tra i militanti dell’Isis e le truppe dell’esercito iracheno. Macerie, edifici crollati e carcasse di auto sformate delineano il paesaggio fino ai quartieri periferici. Al di là delle tracce della vecchia linea ferroviaria si estendono terreni incolti, punteggiati da qualche gregge di pecore e dalle sagome degli ovili in pietra.

L’ESODO IN CORSO ha avuto inizio poco più a nord, a Mosul, dove il 19 febbraio è stata avviata l’offensiva diretta oltre la riva occidentale del fiume Tigri, per conquistare la più importante roccaforte dell’Isis in Iraq. Una città di grande importanza strategica, posta all’estremità orientale dell’asse che la collega a Raqqa, in Siria.

Proprio qui, a Mosul, il leader del califfato Abu Bakr al-Baghdadi ha deciso di benedire la nascita del suo stato islamico.
Era il 29 giugno 2014, l’annuncio fu dato nella moschea al-Nuri divenuta un luogo dal profondo valore simbolico per i miliziani dell’Isis, ora disposti a tutto pur di difenderla dall’avanzata delle truppe irachene, arrivate a soli 400 metri dal luogo di culto.

Gli scontri avvengono di quartiere in quartiere, lentamente, con l’incognita dei cecchini, delle trappole esplosive e delle autobombe e degli attentatori suicidi. A questo si aggiungono gli scudi umani di cui sembra i militanti di al-Baghdadi stiano facendo ricorso. Ciononostante, dal 19 febbraio, l’esercito di Baghdad supportato dai raid aerei della coalizione a guida statunitense ha conquistato circa 440 chilometri quadrati di terreno. Per la liberazione della città è solo questione di tempo, lo sanno tutti ormai. Il tempo appunto, merce rara in un’area così densamente popolata, dove il rigore dell’assedio non distingue i combattenti dai civili.

LA SITUAZIONE È DISPERATA, e per fuggire si è disposti a tutto, anche a sedare i più piccoli affinché non piangano rivelando ai miliziani di guardia la propria posizione durante la fuga. Essere scoperti a scappare ha un costo altissimo: gli uomini sono giustiziati, le donne a volte legate all’aperto per tutta la notte ed esposte al freddo.

Gran parte di chi trova una via di fuga arriva ad Hamman al-Alil. Una dopo l’altra migliaia di persone escono dal ventre metallico dei veicoli. Nei loro volti si intuiscono i patimenti di una vita al limite, sospesi in una città che nessuno riesce a chiamare ancora casa, dove si soffre la fame, la sete, il freddo e la mancanza di assistenza medica.

A differenza di quanto accaduto durante la presa di Aleppo, la battaglia di Mosul non viene raccontata da dentro. In rete non girano i video degli assediati, mancano le drammatiche testimonianze dei civili inermi sfiancati dalla paura, i corpi dei civili sotto le macerie, e questo per l’epoca in cui viviamo significa non esistere o quasi. In realtà, trovarsi a Mosul ovest ora vuol dire rischiare la vita nei combattimenti che proseguono senza sosta, giorno dopo giorno.

Significa anche morire per mano della coalizione giunta in forze a liberare la città, come accaduto il 17 marzo, quando un bombardamento aereo americano ha ucciso quasi 200 persone nel quartiere di Mosul Jidideh.

L’AMMISSIONE POSTUMA da parte del Comando centrale degli Stati uniti, arrivata a seguito dell’avvio di un’inchiesta formale, lascia poco spazio ai dubbi. Questo per quanto riguarda le responsabilità del massacro. È invece difficile comprendere la scelta di bombardare in modo così pesante un’area altamente popolata, dove le postazioni dei nemici e i rifugi dei civili non si possono distinguere.

In casi simili regge poco l’escamotage dei danni collaterali, del resto chi bombarda dall’alto, al pari di chi da l’ordine di attaccare, sa che verranno inevitabilmente colpiti degli innocenti. Il risultato è l’intensificazione dell’esodo. Decine di migliaia di persone terrorizzare si stanno muovendo in massa, isolando di fatto le milizie di al-Baghdadi a tutto vantaggio delle operazioni militari. In contemporanea si aggrava l’emergenza umanitaria al campo al-Alil, dove alle oltre 30mila persone già presenti si aggiungono tra gli 8mila e i 12mila evacuati al giorno, da giorni.

AL LORO ARRIVO, donne e bambini sono raccolti in uno spiazzo all’aperto, attrezzato con un centro medico mobile e una tenda-cucina. Gli uomini invece vengono registrati e controllati uno a uno. «Riteniamo ci siano degli infiltrati dell’Isis tra loro, bisogna stare attenti» spiega Sabir, 24enne incaricato di seguire i nuovi arrivi. L’operatore allunga il dito in direzione di un container poco lontano, dove i padri e i ragazzi più grandi sono in attesa, accovacciati a terra. «Devono essere identificati. Talvolta i militanti si mescolano a chi fugge. Ogni giorno ne troviamo uno o due».

Di tanto in tanto nel mezzo della bolgia si assiste al ricongiungimento delle famiglie. Un ragazzo in uniforme commosso fino alle lacrime riabbraccia il padre, la madre e le sorelle arrivati da poco più di un’ora.

Non si incontravano dalla primavera del 2014, quando l’Isis conquistò senza colpo ferire la città. In pochi istanti l’immagine scompare, cancellata dal passaggio di un gruppo di donne alla ricerca di uno spiazzo in cui sostare con i figli. Appoggiati al suolo i pochi averi sottratti alla furia degli scontri, ha inizio l’attesa, per ore, prima di conoscere il proprio destino. Temono di essere respinti in altri campi, quindi costretti a rimettersi in viaggio. Per far rientrare l’emergenza umanitaria ad al-Alil servono 37 milioni di dollari.

È questa la stima presentata in un appello internazionale da Bruno Geddo, responsabile dell’Agenzia Onu per i rifugiati in Iraq.

L’AMPLIAMENTO DELL’AREA comunque continua, al pari della costruzione di nuovi campi poco lontano, ma l’avanzamento dei lavori non tiene il passo degli arrivi.

A destare maggiore preoccupazione è la consapevolezza che il peggio deve ancora arrivare. Basta un briciolo di buon senso per capirlo.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni sono più di 330mila le persone evacuate dalla seconda città irachena per dimensioni, e in base ai dati delle Nazioni unite, nelle prossime settimane potrebbero fuggirne altrettante. Gli scontri in corso a Mosul ovest stanno danneggiando pesantemente la rete elettrica, quella idrica e tutte le infrastrutture.

Difficile prevedere un rapido ritorno alla normalità, pertanto, all’indomani della liberazione i civili avranno bisogno di un posto dove stare, di cibo e di assistenza ora difficili da garantire.
«Non c’era nulla da mangiare. Un po’ di pane e nient’altro. I bambini rimanevano quasi sempre rinchiusi in casa, soprattutto la sera, avevano paura degli scontri» racconta Fathullah Muhammad incontrato al campo di Sendinan, posto sulla strada che collega Mosul a Erbil, dove trovano posto circa 20mila persone.

Quarantatré anni, il braccio destro sorretto da un legaccio bianco passato sulla spalla e una benda in testa calata sullo sguardo stanco. Fathullah è fuggito mercoledì assieme alla moglie e ai 12 figli. Dopo aver raggiunto Hamman al-Ali sono stati rimbalzati verso altri campi, fino a Sendinan dove, assieme alla sicurezza di una tenda, hanno ottenuto una lunga lista di disagi.

«Abbiamo fame ma la distribuzione qui al campo non basta. Ci mancano i soldi per comperare da mangiare e non c’è benzina per muoversi. Siamo davvero esausti».
A poche centinaia di metri dal campo di Fathullah c’è la tendopoli gemella di Asanshan, simile per dimensioni e disagi. Nella moschea ricavata all’ombra di un tendone in plastica si è appena conclusa la preghiera.

Poco lontano incontriamo Jamal Abdullah di 46 anni. A novembre, poche settimane dopo l’inizio della battaglia di Mosul era riuscito a fuggire. Viveva nella parte orientale della città. «Io e la mia famiglia ci siamo trovati nel mezzo, tra le postazioni di Daesh e le truppe irachene» racconta Jamal, sdraiato su un paio di materassini e una coperta, a ridosso della recinzione che costeggia la parte settentrionale del campo.

ALLE SUE SPALLE un paio di stampelle luccicano al sole primaverile. Con lo sguardo porta l’attenzione al piede destro, segnato da un’evidente ferita causata da una pallottola. «Quando abbiamo alzato bandiera bianca in segno di resa all’esercito iracheno un cecchino di Daesh ci ha sparato».
Il proiettile ha attraversato la caviglia ferendo anche il piede sinistro. «All’ospedale mi è stata inserita una placca di alluminio, almeno con le stampelle riesco a camminare. Assieme a me è stato ferito anche un bambino, al braccio, credo gli sia stato amputato».

Stampelle o meno, Jamal si sta preparando al ritorno con la famiglia a Mosul est. Prima di fuggire possedeva un’officina meccanica ben avviata, sufficiente a procurare abbastanza per vivere.
Ora deve ricominciare da capo, a partire dalla casa priva di servizi elettrici dove un pozzo di acqua non potabile resta l’unica risorsa disponibile. Per tutto il resto serviranno tempo e pazienza, ma il desiderio di lasciarsi le tende e il campo alle spalle prevale su qualsiasi disagio. «Viviamo in tempi difficili, ma siamo felici di poter ricominciare. Sono sicuro che ci riusciremo, inshallah».

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