L’Istat certifica il nuovo record dei poveri assoluti, sono oltre 5 milioni

L’Istat certifica il nuovo record dei poveri assoluti, sono oltre 5 milioni

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Il Pd preme per estendere un’altra misura, però in vigore: il reddito di inclusione. In questa grande confusione chi ci rimette sono i poveri e i precari

L’Istat ha confermato il record di poveri assoluti in Italia: sono 5 milioni e 58 mila individui, il numero più alto dal 2005. Crescono anche i poveri relativi, coloro che pur avendo un lavoro arrivano con difficoltà alla fine del mese: nel 2017 erano 9 milioni 368 mila individui (il 15,6% contro il 14% del 2016). Più si è giovani, under 35, più si è poveri. L’indigenza è aumentata soprattutto a Sud, nelle grandi città e nei centri fino a 50 mila abitanti. Il fenomeno è tuttavia presente anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord.

IN TUTTI QUESTI CASI il lavoro non basta per neutralizzare la realtà della povertà: nelle famiglie con il capofamiglia operaio, il disagio economico è più che doppio rispetto a quelle con un pensionato come persona di riferimento. Le più malmesse sono le famiglie degli stranieri residenti: rappresentano il 27% di quelle povere nel nostro paese, oltre una su quattro, più di un terzo sul totale degli indigenti. Matteo Salvini non ha fatto mancare la sua pillola di saggezza: «I dati confermano la giustezza del nostro obiettivo: mettere al centro gli italiani e dare priorità assoluta alle loro necessità». Se ne deduce che in nome del «prima gli italiani» si intenderebbe colpire un terzo dei poveri assoluti in Italia, gli stranieri. Come? Ad esempio escludendoli dal «reddito di cittadinanza» che il governo intende istituire. Se così fosse la battaglia xenofoba avrebbe due fronti: la guerra contro i profughi nel mediterraneo e quella contro i poveri stranieri che lavorano in Italia. Non è chiaro se Di Maio condivida questo approccio.

IL MINISTRO DEL LAVORO e dello sviluppo ieri da Confartigianato ha rilanciato la proposta di fare partire «subito» «entro la fine del 2018» il «reddito di cittadinanza» – in realtà un sussidio condizionato alla scelta obbligatoria di un lavoro attraverso l’istituzione di un sistema di centri per l’impiego oggi inesistente. Proposta contro la quale il ministro dell’economia Giovanni Tria ha eretto un muro di gomma: la legge di stabilità non investirà un euro. Se ne riparlerà nel 2019. A Di Maio non basta. Ha bisogno di una bandiera contro l’avanzata della Lega. Alla ricerca di sostegni contabili Di Maio ha citato il procuratore generale della Corte dei Conti Alberto Avoli che, nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato per il 2017, ha definito il reddito «un diritto importante a sostegno delle fascecolpite dalla prolungata crisi occupazionale». E ha ricordato di rispettare i «doveri di cittadinanza».

LA PREMURA DI DI MAIO non è dovuta solo all’urgenza di ottenere visibilità politica. Il problema è anche tecnico: in attesa che il «reddito» entri in vigore, e non sarà a breve, il ministro deve decidere cosa fare del «reddito di inclusione» («ReI»), misura fallimentare del governo Gentiloni. Potrebbe usarlo come soluzione ponte, o come chiede il Pd con l’Alleanza contro la povertà (a cui aderiscono Acli, Caritas, i sindacati confederali) estenderlo. Di Maio, per ragioni politiche, non offre sponde, ma non spiega cosa fare, subito, contro l’emergenza. Così si espone a una pioggia di critiche. Mara Carfagna (Forza Italia) ad esempio sostiene che il reddito è «irrealizzabile» e chiede «un assegno universale per i bambini in povertà assoluta».

DAL PRIMO LUGLIO IL «REI» diventerà «universale». Per accedere non sarà più necessario che in famiglia ci sia un minore, una persona con disabilità, una donna in stato di gravidanza o un disoccupato over 55. La platea dei potenziali beneficiari salirà da 1,8 a circa 2,5 milioni. Il massimale sarà incrementato del dieci per cento: da una media di 485 a circa 534 euro mensili per un anno. Per ottenerlo bisognerà essere poverissimi: avere un reddito Isee da 6 mila euro e uno Isre da 3 mila. Ben più alta è la soglia stabilita dai Cinque Stelle: 780 euro a testa per 14 milioni di persone. Attenzione: questo è il tetto massimo. Se il beneficiario ha una rendita di 400 euro, il reddito è di 380 euro. Per questa miseria sarà obbligato a partecipare per 12-18 mesi ai corsi dei centri dell’impiego; ad accettare una proposta di lavoro su tre pena la perdita del sussidio; a lavorare gratis otto ore a settimana per lo Stato. Resta il nodo delle risorse per il «reddito» e i centri per l’impiego (17+2 miliardi). Di Maio pensa ai fondi europei Fse-Plus. Proposta bocciata dalla commissaria Ue al welfare Marianne Thyssen:i fondi che non sostituiscono la spesa nazionale né vanno usati per politiche «passive», gli ammortizzatori sociali per disoccupati. Di Maio vuole dimostrare che la sua è una «politica attiva del lavoro». Avere chiamato il «workfare» per quello che non è – un «reddito di cittadinanza» – non aiuta. Strumentalmente gli si rinfaccia l’«assistenzialismo», mentre è il contrario: si vuole mettere al lavoro i poveri obbligandoli a fare lavori poveri e volontari.

DALLA SAGRA DEGLI EQUIVOCI è esclusa l’idea che il reddito possa essere incondizionato. La lotta contro la povertà non va distinta da quella contro la burocrazia. Di Maio pensa che la burocrazia danneggi solo le imprese. No, quella delle politiche attive che vuole costruire può stritolare i poveri. E così si va avanti al buio senza prevedere le conseguenze mentre la povertà continuerà a crescere ancora.

***Non è mai troppo tardi per un reddito di base. Di cosa parliamo quando parliamo di “reddito” in Italia

FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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