Contro la carovana dei migranti Trump manda 5.200 marines
Sotto gli occhi del mondo, la carovana dei migranti prosegue nel suo cammino, malgrado lo sfinimento, il caldo che non perdona, i piedi che fanno sempre più male. Giunta lunedì a Santiago Niltepec, in Oaxaca, la carovana procede ora in direzione di Città del Messico, distante circa 550 chilometri. In ogni punto la comunità locale offre cibo, acqua e passaggi in auto per chi va più a rilento, come le famiglie con bambini piccoli (uno ogni quattro migranti, secondo l’Unicef).
Ma le difficoltà, come ha spiegato Alejandra Castillo di Unicef Messico, crescono ad ogni tappa: da Arriaga (in Chiapas) a Tapanatepec (in Oaxaca) la carovana non ha incrociato alcun abitato che potesse offrire ristoro e avverrà lo stesso da Niltepec a Juchitán. Da qui in avanti, inoltre, il caldo e l’umidità lasceranno man mano spazio al freddo e sarà ancora peggio, considerando che la maggioranza dei migranti non ha vestiti adeguati né coperte.
Non tutti sono riusciti ad arrivare fin qui. Non ce l’ha fatta Melvin Josué Gómez, caduto da un camion il 22 ottobre mentre cercava di attraversare la frontiera messicana. Al suo funerale, svoltosi nella regione di Chamelón, in Honduras, dopo il rientro della salma, il padre della vittima ha puntato il dito contro il governo: «Qui la legge non è uguale per tutti: vogliono che il povero diventi sempre più povero e il ricco sempre più ricco».
E non ce l’hanno fatta altri due migranti: uno investito da un camion e un altro, Henry Diaz, 26 anni, ucciso da un proiettile di gomma alla testa sul ponte Rodolfo Robles sul fiume Suchiate, tra Ciudad Hidalgo, in Chiapas, e Tecún Umán, in Guatemala. Apparteneva alla seconda carovana di migranti, partita in un secondo momento e composta da circa 1.500 persone. Giunta domenica al confine tra i due paesi, si è trovata ad affrontare la dura repressione da parte tanto della polizia guatemalteca quanto di quella messicana. E già si prevede nei prossimi giorni l’arrivo di un terzo gruppo, partito domenica da El Salvador.
Ma ci sono anche – e si tratta di alcune centinaia – quelli che si sono arresi, stremati dalla fatica e spaventati da tutta la strada ancora da percorrere. I primi a cedere, almeno una trentina di persone, si erano presentati al municipio di Huixtla chiedendo aiuto per poter tornare indietro, malgrado la paura di rappresaglie al rientro in Honduras. Diversi altri hanno seguito il loro esempio.
Come andrà a finire la colossale impresa di tanti migranti in fuga dalla miseria e dalla violenza è difficile prevederlo. Ma in molti pensano che non ci sarà un lieto fine. La segretaria della sicurezza interna Usa Kirstjen Nielsen ha assicurato che, se i migranti tenteranno di attraversare la frontiera, verranno arrestati e deportati. E Trump ha disposto l’invio di ben 5.200 soldati al confine col Messico – un contingente pressoché uguale a quello attualmente presente in Iraq – annunciando anche la costruzione di «una città di tendopoli», in cui i migranti dovranno attendere l’esito delle loro richieste di asilo: «Se non ne avranno diritto se ne andranno».
All’altro estremo del percorso, in Honduras, là dove tutto è partito, la carovana sta suscitando invece tra la popolazione una grande ondata di solidarietà, insieme a una rinnovata denuncia delle politiche del governo golpista di Juan Orlando Hernández. Dal 23 al 26 ottobre, rispondendo alla convocazione della Convergencia contra el continuismo, il coordinamento di movimenti sociali honduregni, le forze popolari hanno dato vita a una carovana interna di 300 chilometri, da La Barca a Tegucigalpa.
Con due obiettivi: esprimere vicinanza alle famiglie in viaggio verso gli Stati uniti ed esigere dal governo la convocazione di elezioni anticipate per aprile 2019, la creazione di un nuovo tribunale elettorale e la costituzione di una commissione di osservazione e supervisione internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite.
* Fonte: Claudia Fanti, IL MANIFESTO
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