Brasile. Marcia delle «margherite», in centomila contro Bolsonaro

Brasile. Marcia delle «margherite», in centomila contro Bolsonaro

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La resistenza in Brasile ha il volto delle donne: contadine, indigene, nere, pescatrici, lavoratrici urbane, giovani e meno giovani. Erano in più di centomila mercoledì, a Brasilia, per la sesta edizione della «Marcia delle margherite», la più grande mobilitazione a livello latinoamericano delle donne dei campi, delle foreste e delle acque. L’edizione più partecipata tra quelle che, dal 2000, si ripetono ogni 4 anni nella capitale in ricordo di Margarida Maria Alves, la presidente del Sindacato dei lavoratori rurali di Alagoa Grande, in Paraíba, assassinata il 12 agosto 1983, davanti agli occhi del figlio e del marito, da pistoleiros al soldo dei fazendeiros della regione.

Nulla è cambiato da allora, se non in peggio: la guerra dell’agrobusiness contro i lavoratori rurali, le comunità indigene, i popoli tradizionali e i difensori dell’ambiente prosegue e si inasprisce, sotto la convinta benedizione del governo Bolsonaro. E quanto il clima si sia fatto pesante per la lotta sociale, lo ha mostrato bene l’impiego – incostituzionale – della forza nazionale di pubblica sicurezza deciso dal ministro della Giustizia Sergio Moro.

«Mai come ora la soluzione alle nostre rivendicazioni dipenderà dalla nostra lotta e da noi stesse», ha affermato Atiliana Brunetto della direzione nazionale del Movimento dei senza-terra. Rivendicazioni che vanno dalla piena partecipazione politica delle donne al diritto all’educazione nei campi e nelle aree indigene, dal sostegno all’agricoltura familiare alla previdenza sociale e alla salute pubblica, fino alla preservazione dell’ambiente e della biodiversità.

La difesa della salute, dell’educazione e delle foreste è stata anche al centro della prima storica Marcia delle donne indigene, poi confluita nella Marcia delle margherite. Promossa dall’Apib (l’associazione dei popoli indigeni del Brasile) sul tema «Territorio: il nostro corpo, il nostro spirito», la protesta ha visto la partecipazione, sempre a Brasilia, di oltre 2 mila donne provenienti da 113 popoli originari, decise a resistere alla politica genocida ed ecocida dell’attuale governo.

Una guerra iniziata, come ha affermato la coordinatrice dell’Apib Sonia Guajajara, candidata del Psol alla vicepresidenza nelle ultime elezioni, con il minaccioso proclama di Bolsonaro in campagna elettorale: «Neanche un centimentro di terra in più ai popoli indigeni». E proseguita con una serie di devastanti misure dirette a un unico scopo: trasformare le terre originarie e la foresta amazzonica in pascoli per l’allevamento del bestiame, latifondi e miniere.

Che ci stia riuscendo non ci sono dubbi. In base agli ultimi dati dell’Inpe (Istituto nazionale di ricerche spaziali) con cui si è conclusa la serie annuale di rilevamenti satellitari del sistema Deter (da agosto a luglio), la deforestazione nell’Amazzonia è cresciuta lo scorso mese del 278% rispetto allo stesso periodo del 2018.

Né è bastato a nascondere l’ennesima cattiva notizia, il licenziamento del suo portavoce: il presidente dell’Inpe Ricardo Galvão, accusato di lavorare «al servizio di qualche ong» e sostituito, ad interim, dal colonnello dell’Aeronautica Darcton Policarpo Damião: tanto per cambiare, un negazionista del riscaldamento globale di origine antropica.

E mentre, in polemica con le politiche ambientali del governo brasiliano, Germania e Norvegia hanno annunciato di sospendere il finanziamento del Fondo Amazzonia, Bolsonaro ha lasciato sgomenti tutti con la sua personale ricetta per la difesa del pianeta: basterebbe, ha detto, mangiare un po’ meno e «fare la cacca un giorno sì e un giorno no».

* Fonte: Claudia Fanti, IL MANIFESTO

 

photo: Senado Federal [CC BY 2.0]



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