Ground Zero a Beirut. «È una strage di stato»

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Martedì 4 agosto, ore 18:08. Una prima esplosione. Pochi istanti. Un’altra. Un’onda d’urto spaventosa, avvertita fino in Siria, a Cipro, a 200km. Un deposito contenente 2750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate dal 2014 nel capannone 12 al porto di Beirut, dopo il sequestro nel 2013 della nave moldava Rhosus, saltato in aria in circostanze ancora da definire.

Badri Daher, direttore dell’ufficio doganale, ha dichiarato che il deposito di nitrato non era sotto la sua responsabilità, ma sotto quella di Hassan Koraytem, capo del porto e direttamente sottomesso al ministero dei Trasporti e dei lavori pubblici. Daher ha aggiunto che dal 2014 a oggi abbiamo allertato sei volte la magistratura, che non è intervenuta». Dal canto suo Koraytem si è mostrato sorpreso che «non ci si sia sbarazzati del materiale nonostante la corrispondenza tra magistratura e dogana. (…) Noi abbiamo seguito le istruzioni dei magistrati. Ci hanno chiesto da poco, dopo anni, di colmare una fessura nella porta del capannone per evitare un possibile deterioramento e noi lo abbiamo fatto».

IL GIORNO DOPO L’ESPLOSIONE che ha devastato Beirut le strade sono affollate di volontari, di gente che, ancora in stato confusionale, comincia a rimuovere vetri e detriti, che sono ovunque. Le auto parcheggiate hanno le lamiere ammaccate e i vetri frantumati, come dopo un incidente. Si calcola sommariamente che siano 300mila gli sfollati, ma i danni sono incalcolabili. La croce rossa ha installato delle tende per i primi soccorsi. Le operazioni sono andate avanti instancabilmente da martedì sera. Si estraggono ancora persone dalle macerie e si spera siano vive, ma sono ancora molti i dispersi.

L’aria è irrespirabile. «Ho sentito un primo boato forte e mi sono affacciata alla finestra per capire cosa stesse succedendo. Pochi secondi e ne ho sentito un altro violentissimo e sono stata sbalzata all’indietro sul letto. Poi silenzio. Mi sono ripresa e mi sono pulita dai detriti. Ho visto che la porta era scardinata. La mia vicina di casa sanguinava. A quel punto ho sentito grida dalla strada, sirene di ambulanze. Ho guardato fuori dalla finestra e c’erano detriti ovunque, vetri rotti, auto sfasciate», racconta con la voce tremante Gabriella, cooperante italiana in Libano. «Ho pensato che si trattasse di un attentato. Ho provato a chiamare qualcuno, ma la linea era staccata. È stato un incubo. Sono viva per miracolo».

CHRIS IBRAHIM, al momento dell’esplosione a Ashrafieh, un paio di km dal porto, racconta: «Eravamo in auto, in direzione mare. Ho sentito una prima esplosione e ho visto davanti a me una nube di fumo. Qualche istante e c’è stato un rumore come di risucchio e subito dopo un’altra esplosione, questa volta fortissima. Poi un momento di silenzio ed è cominciata una pioggia di metallo e vetro. Abbiamo invertito la rotta e siamo scappati in direzione opposta».

La Croce Rossa Libanese parla di circa 140 morti, 5mila feriti e decine di dispersi. Numeri provvisori che continuano a salire.

La situazione negli ospedali ancora attivi è disastrosa. I feriti lievi vengono mandati via senza essere medicati: non c’è tempo, spazio, modo. A un paio di km in linea d’aria dal porto, l’ospedale Saint George a Geitawe è stato evacuato. Nell’esplosione sono morte 12 persone. Nelle vicinanze, l’Ospedale Libanese «non è più funzionale» dichiara il direttore Pierre Yared. Anch’esso è stato evacuato e i pazienti sono stati trasferiti. Altri presìdi hanno subito meno danni materiali, ma accetteranno nei prossimi giorni solo pazienti gravi.

IL SISTEMA SANITARIO LIBANESE è in gran parte privato, in seguito alle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni. La crisi economica ha costretto nei mesi passati molti degli ospedali privati o a chiudere o a ridurre le prestazioni, a causa dei mancati finanziamenti statali. Il servizio sanitario pubblico, già provato dalla crisi, dalla mancanza di elettricità – che aveva già costretto il Rafiq Hariri a chiudere 2 delle sue 6 sale operatorie -, era già prossimo al collasso per l’emergenza covid. Il Libano è formalmente in un nuovo lockdown dal 30 luglio fino al 10 agosto. E ieri sera il ministero della Salute ha confermato negli ultimi due giorni 355 nuovi casi e 3 morti.

ALLA FORTISSIMA CRISI economica, sociale, sanitaria si deve aggiungere una crisi alimentare che si stima colpirà più della metà della popolazione entro la fine dell’anno. Negli ultimi mesi la moneta ha subito una svalutazione dell’80%. Il Paese dei Cedri risente inoltre dell’influenza della crisi siriana e della continua situazione di instabilità a sud con Israele.

È stata giornata di lutto nazionale quella di ieri. Il presidente della Repubblica Aoun ha dichiarato lo stato di emergenza per 2 settimane alla fine di un consiglio straordinario nel quale ha inoltre confermato la volontà espressa dal premier in visita al porto martedì di «punire duramente i responsabili». E a tale proposito il governo ha messo agli arresti domiciliari tutti gli ufficiali coinvolti nell’operazione di stoccaggio e guardia del capannone 12 dal 2014 a oggi.

I COMMENTI SUI SOCIAL vanno in una sola direzione: la responsabilità è dello stato! R.K. riassume così un sentimento diffuso: «Non mi importa cosa ci fosse nel deposito, armi, fuochi d’artificio, materiale chimico. Tutto ciò mostra solo una cosa: un governo inetto che non mi rappresenta in nessun modo. Chiunque parteggia ancora per questo o quel politico dovrebbe solo chiudere la bocca. Questo circo deve finire!».

Si ha la sensazione che questa esplosione abbia segnato un punto di non ritorno e che presto, quando lo shock sarà passato, il circo dovrà in qualche modo finire e il popolo libanese pretenderà di farsi restituire la dignità che merita.

* Fonte: Pasquale Porciello, il manifesto



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