Presidenziali USA. La pedina di Trump alla Corte Suprema

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La scorsa settimana la corte suprema americana ha mantenuto in vigore una direttiva che permette di prolungare lo scrutinio dei voti in Pennsylvania per diversi giorni. Il partito repubblicano che ha interesse a limitare il più possibile i voti spediti per posta, aveva fatto ricorso ma il sommo tribunale, diviso 4-4 non ha espresso la maggioranza necessaria per invalidare la regola.

Si è trattato solo di una di tante cause intentate attorno alle elezioni e al labirinto di norme statali e locali che potranno influire sull’esito negli ultimi giorni precedenti e in quelli successivi alle elezioni.
Nei suoi comizi Trump ama elencare, fra i trionfi immaginari della sua amministrazione, una promessa effettivamente mantenuta alla sua base di estremisti conservatori la conferma di «centinai di giudici federali».

In America i magistrati che siedono nei tribunali e nelle corti d’appello federali vengono designati dal presidente e confermati dal senato.

Per anni la camera superiore, controllata dai repubblicani, ha bloccato le nomine giudiziarie di Obama, creando un vuoto che Trump, in sintonia con l’arciconservatore presidente del senato, Mitch McConnell, ha metodicamente riempito assegnando oltre 200 poltrone a magistrati di fidata fede conservatrice.

L’orientamento ideologico di queste cariche è cruciale perché nell’ordinamento americano i tribunali che presiedono sono chiamati a giudicare materie istituzionali di impatto diretto e pervasivo sulla vita del paese. È nei tribunali federali che viene provata la legalità di leggi e decreti, costituendo un contrappeso operativo ai poteri legislativi ed esecutivi.

La funzione è particolarmente fondamentale per la corte suprema, arbitro ultimo e insindacabile di costituzionalità e come tale, organo che modula e modera il potere degli altri rami del governo. Nel dopoguerra la corte è intervenuta in modo determinante su diritti civili, libertà di espressione, desegregazione, aborto, matrimoni gay, emancipazione di donne e minoranze, tutela dell’ambiente – in altre parole sul progresso sociale, ponendo un argine al razzismo e agli abusi di potere.

Quelle dei tribunali federali e della corte suprema sono cariche a vita, da cui l’importanza di un teorico equilibrio ideologico a garanzia di un imparzialità che a sua volta dovrebbe essere mantenuta anche dall’alternanza dei presidenti che scelgono le toghe (in realtà dal 1969 presidenti democratici hanno designato quattro giudici alla corte suprema contro i 15 scelti da repubblicani – quattro dei quali nominati da presidenti che avevano perso il voto popolare).

Ora Donald Trump che il voto popolare lo ha perso per quasi 3 milioni di preferenze, si appresta a nominare il terzo giudice supremo in meno di quattro anni. Effetto, anche in questo caso, della strategia repubblicana che ha usato la maggioranza in senato per bloccare la nomina di un giudice (Merrick Garland) che spettava a Obama in attesa di un prossimo presidente repubblicano.

Che questo si sia poi rivelato essere Donald Trump è probabilmente andato oltre le più rosee previsioni dei reazionari – come anche il fatto che dopo aver riempito la poltrona artificialmente tenuta vuota (con Neil Gorsuch), le dimissioni del giudice Kennedy e la morte dei Ruth Bader Ginsburg gli avrebbero dato due ulteriori opportunità di modificare radicalmente l’equilibrio politico del tribunale. Dopo aver nominato un secondo arcivonservatore – Brett Kavanaugh – il presidente ha designato Amy Coney Barrett come terza scelta che promette di destabilizzare la corte potenzialmente per diverse generazioni.

E definire conservatrice Barrett è un eufemismo. Si tratta di una degna discepola di Atonin Scalia, il leggendario togato paladino della destra integralista per cui la neo giudice aveva lavorato.

Mentre Scaila aveva frequentazioni con frange dell’Opus dei, Barrett appartiene direttamente ad una setta di cattolici carismatici (People of Praise) che crede nella letteralità della Bibbia e nel primato dell’uomo sulla donna (denominate «ancelle» tanto per evocare la distopia misogina di Margaret Atwood).

Le sue posizioni danno la misura della deriva reazionaria della destra da Reagan ai giorni nostri e influiranno sulle prossime sentenze della corte su abrogazione della sanità sociale e diritto all’aborto, per menzionare solo due temi che saranno al vaglio nei prossimi mesi.

Prima ancora Barrett potrà influire in modo diretto sulla stessa rielezione di Trump. Innanzitutto decidendo sulle cause di cui dicevamo, intentate per difendere il diritto di voto dai tentativi di «soppressione» da parte dei repubblicani. E in modo ancor più cruciale, assicurando una maggioranza favorevole al presidente qualora, com’è del tutto plausibile, l’esito delle elezioni dovesse venire determinato – come fu nel 2000 – da un sentenza della Corte Suprema.

Trump piazza insomma una pedina determinante nel progetto di eversione delle elezioni assicurandosi virtualmente un sentenza favorevole che potrà invocare di dopo aver preventivamente confutato la validità del voto.

Con la nomina di Barrett è apparecchiata in altre parole, la «soluzione finale» per sovvertire la democrazia americana

* Fonte: Luca Celada, il manifesto



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