Corpi a perdere. La morte in cella come “fine pena mai”

Corpi a perdere. La morte in cella come “fine pena mai”

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In periodo di pandemia, la morte in carcere evoca subito due diverse immagini: quella dei 13 detenuti morti durante o a seguito le lotte del marzo 2020 e quelli deceduti per Covid, 16 al dicembre 2020, secondo il Rapporto 2021 di Antigone[1] e le fonti di Ristretti orizzonti[2]. Morti tutte evitabili e dunque anche più pesanti eticamente e politicamente, se esiste un principio di responsabilità pubblica. Evitabili quelle delle rivolte, come da oltre un anno denuncia il nostro Comitato, e evitabili quelle da Covid, se davvero fossero state rispettate tutte le possibili norme di prevenzione, se fossero state accelerate e facilitate le scarcerazioni, se una volta contratta la malattia si fosse voluto scarcerare almeno per non morire dietro le sbarre. E, venendo più ai giorni nostri, se si garantisse il vaccino a tutti e subito, in un ambiente concentrazionario che per il virus è una vera manna (oggi, secondo dati DAP, è vaccinato meno di un terzo dei detenut*[3]).

Morire in cella

E però, e intanto, tutte le cause di morte che tradizionalmente affliggono la popolazione detenuta continuano il loro inesorabile corso, non solo non trovando alcun ostacolo a invertirne la rotta, ma al contrario segnando importanti incrementi.

Il 2020 segna una delle cifre record di suicidi in cella: 61, al dicembre 2020; cifra seconda solo ai 67 del 2018, ai 66 del 2010 e 2011, ai 69 del 2001, per stare solo al nuovo millennio. E ai primi di maggio 2021 sono già 18. Senza contare che a queste cifre va aggiunta quella dei tentati suicidi (che non sono gli atti di autolesionismo, ma a questi si aggiungono): tra 1.000 e 1.500 ogni anno negli ultimi anni. Di loro si sa poco, solo il lavoro certosino di Ristetti orizzonti mette in fila nomi, cognomi, età, carcere, articoli che di loro ci dicono qualcosa; si sa che sono giovani, età media nemmeno 40 anni, maschi (una donna suicida, nel 2020, a Sassari), e che la morte tocca italiani e stranieri in (quasi) egual misura.

In carcere ci si suicida 10 volte di più che nella società libera: ovvio – dovrebbe essere ovvio – che il fattore del contesto carcerario conti infinitamente di più delle ragioni correlate alle fragilità dei singoli, e un esercizio non ipocrita dovrebbe concentrarsi sul primo fattore, ben più che sul secondo. Anche perché sul fattore contesto si potrebbe metter mano: non è dato affermare nessi di causalità ma di correlazione sì, è legittimo, per esempio tra la disperazione dovuta alle norme anti-Covid e il numero dei suicidi nel 2020, o, al contrario, tra i periodi di maggiore apertura, quale ne sia la causa (per esempio il post sentenza Torreggiani) e il decremento delle morti, che si vedono poi risalire a effetto deflattivo esaurito. Una correlazione del resto sottolineata già dalla OMS nelle sue linee guida sul suicidio in carcere[4], che della cura dei fattori di contesto fa il punto di forza di ogni intervento preventivo. C’è una insopportabile ipocrisia nel controllare a vista chi è a rischio suicidario e mantenere inalterate le peggiori condizioni, di vita e di gestione, del carcere. Senza contare che anche il guardare a vista, non sempre funziona, per esempio non quando la Juve e il Milan si sfidano, come accaduto a inizio aprile, a Torino nel carcere delle Vallette, dove gli agenti che avrebbero dovuto “aver cura” (!) della vita di Roberto Del Gaudio, si sono distratti e lui si è impiccato con i pantaloni del suo pigiama.

Ci sono poi le morti “naturali” in cella che ogni anno chiudono la vita di chi è detenuto in un feroce “fine pena mai”. Sono tante, difficile affermare che siano casi isolati e non un fenomeno di cui preoccuparsi, mettere sotto osservazione e a cui cercare soluzioni: tra 80 e 100, ogni anno negli ultimi dieci anni. Per cosa si muore? Per malattia, per overdose da farmaci, droghe illegali, gas inalato; e per cause sconosciute, che restano da accertare. Nella citata, minuziosa statistica di Ristretti orizzonti, la categoria “da accertare” è affollatissima. Caselle vuote, e che spesso restano senza una verità, che possono celare pestaggi e torture (perché la tortura esiste, in Italia, ne abbiamo parlato spesso, su questa Newsletter), omicidi, malattie o traumi trascurati, non curati.

Ippocrate e la malattia ignorata

C’è, su questo, un allarme nell’allarme: vale, in carcere, il giuramento di Ippocrate? Sono deontologicamente liberi, e responsabili, medici e infermieri, o soggiacciono alla legge del più forte, cioè al potere carcerario, in una relazione ancillare e sottomessa? Il detenuto può contare sulla loro autonomia e dignità professionale o si trova stretto in una alleanza malata e complice? Il passaggio al Servizio sanitario nazionale doveva andare in una decisa direzione: pari prestazioni, pari qualità e pari diritti. Ma non è così, certo non sempre ma spesso non è così: sono inquietanti i silenzi e le complicità dei sanitari nei casi di tortura (non parole, atti e processi), lo sono nella mancata presa in carico o nella sottovalutazione (il detenuto che mente e strumentalizza…). Come nel caso di Alfredo Liotta, morto nel carcere di Siracusa nel 2012, per cui ben otto medici sono stati condannati in primo grado, nel 2020, per omicidio colposo. Di fronte a un quadro clinico drammatico, in otto si sono succeduti al suo capezzale senza battere ciglio e omettendo ogni cura. Anche questa, una morte evitabile.

Quando la verità c’è, è appurata e si chiama malattia, lo scandalo rimane: perché se la malattia è mortale, morire nella branda di una cella grida vendetta, dovrebbe gridare vendetta, in nome di un’etica minima e della Costituzione. Ma le recenti morti in cella di alcuni detenuti al 41bis – vecchi e con decenni di carcere disumano sulle spalle – a cui sono stati negati arresti domiciliari che sarebbero durati un tempo brevissimo “pericolosamente” trascorso inchiodati a un letto e trafitti dalle flebo, queste morti denunciano che il corpo di chi è detenuto è un corpo a perdere, reso cosa, oggetto della reclusione e del potere, disumanizzato e privo di ogni basilare diritto.

In carcere oggi ci sono 851 persone ultrasettantenni. Il più struggente e drammatico tra i suicidi del 2020 è quello di Salvatore Floris che si è ucciso pochi giorni dopo Natale, a Cagliari. Aveva 80 anni. Che cosa ci faceva, in galera, un vecchio di 80 anni? Cosa ci fanno in galera 851 vecchi?

Scontano il loro “fine pena mai”, una sentenza a vita su cui nemmeno la Corte costituzionale può qualcosa.

 

[1]Associazione Antigone, Oltre il virus. XVII Rapporto, https://www.rapportoantigone.it/diciassettesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione /

[2] Ristretti orizzonti, Morire di carcere: dossier 2000-2021, http://www.ristretti.it/

[3]DAP, Monitoraggio Covid negli istituti penitenziari – Maggio 2021, https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_27.page

[4]OMS, La prevenzione del suicidio in carcere, https://www.who.int/mental_health/resources/resource_jails_prisons_italian.pdf



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