Ma non è difficile ritrovarlo ancora oggi. Ad esempio, nero su bianco, tra le motivazioni usate dalla polizia di Berlino per sospendere e limitare diritto di manifestare della comunità palestinese nelle settimane che hanno preceduto e seguito il 75esimo anniversario della Nakba, la catastrofe, ovvero l’espulsione di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre nel 1948 per mano delle milizie paramilitari sioniste prima e dal neonato stato di Israele poi.

Da metà aprile a metà maggio sono state tre le manifestazioni vietate, tutte nel quartiere arabo di Neukölln – una dedicata ai prigionieri politici palestinesi, altre due grandi manifestazioni organizzate in occasione dell’anniversario, il 14 e il 20 maggio.

A essere vietato anche un evento di arte e musica alla Porta di Brandeburgo: un gruppo di donne ebree e palestinesi voleva lasciar volare nell’aria dei palloncini a forma di anguria, i cui colori richiamano la bandiera palestinese. La polizia lo ha cancellato.

Le motivazioni alla base dei divieti sono esposte con l’acribia tipica delle autorità tedesche. Decine di pagine di allegato, in cui i palestinesi che scendono in strada a manifestare vengono stilizzati a soggetti in preda a un “notevole grado di emotività”, “aggressivi”, difficili da trattenere e riportare alla ragione, “non avversi alla violenza” e a scandire slogan definiti antisemiti. Un divieto preventivo dunque, fondato su un mix nemmeno nascosto di metodo induttivo e racial profiling.

“Come se poi i palestinesi dovessero restare calmi di fronte alla confisca della loro terra e all’uccisione della loro gente”, commenta Zaid. E’ membro di Samidoun, il network transazionale di solidarietà con i prigionieri politici palestinesi che aveva indetto due delle manifestazioni vietate. A Berlino, Samidoun organizza molti giovani rifugiati palestinesi, arrivati qui soprattutto dopo la guerra in Siria.

Questa, secondo Zaid, la vera ragione dei divieti: “C’è una grande comunità palestinese particolarmente forte a Berlino, soprattutto a Neukölln, che arriva dai campi profughi e che non è disposta a compromessi. Lo stato non vuole che si organizzino. Ogni lavoro in solidarietà con la Palestina non è benvenuto in Germania”.

Il motivo è noto a tutti. Lo aveva già messo in chiaro Angela Merkel in uno storico discorso alla Knesset nel 2008, lo ha ribadito il primo ministro Olaf Scholz durante la visita di Netanyahu lo scorso marzo a Berlino: Israele è per la Germania “ragione di Stato”.

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E un divieto generale di manifestare nei giorni della Nakba nella capitale tedesca era stato difatti decretato anche l’anno scorso. La polizia aveva usato il pugno di ferro e cancellato preventivamente persino un sit-in organizzato da un gruppo di attivisti di origine ebraica in ricordo della giornalista Shireen Abu Akleh, assassinata l’11 maggio del 2022 da un proiettile israeliano.

Il quartiere di Neukölln era stato messo sotto sorveglianza da più di un migliaio di agenti, ma ad Hermannplatz, la piazza principale, un gruppo di persone aveva deciso comunque di riunirsi per osservare un minuto di silenzio. Erano stati circondati, la polizia aveva bloccato chiunque avesse indosso anche solo una kefiah.

Centinaia gli arresti e più di venti persone finite davanti al giudice, per un totale di 8.270 euro di multe. I processi, soprattutto quelli a carico degli imputati palestinesi, vanno ancora avanti.

Dagli eventi dell’anno scorso sono partite due campagne. Una è la “Revolutionary Solidarity Coalition” iniziata da Samidoun, che raccoglie più di 160 tra organizzazioni, partiti e sindacati da tutto il mondo intorno al tema della repressione in Germania. Una campagna importante perché allarga il fuoco del discorso oltre la questione palestinese, la reinserisce in un contesto più generale e la connette, ad esempio, alla persecuzione delle autorità tedesche nei confronti dei gruppi della sinistra rivoluzionaria curda e turca.

“Lo stato opera dapprima contro minoranze per creare un precedente da usare poi in altri ambiti. Il divieto preventivo di manifestare sulla base del sospetto che qualcuno faccia qualcosa di illegale durante un manifestazione potrebbe essere applicato al primo maggio o quasi tutte le manifestazioni di sinistra”, dice Zaid.

L’altra campagna si chiama #Nakba75. L’ha lanciata un gruppo misto di attivisti e attiviste palestinesi e internazionali, decisi a portare avanti la protesta contro la criminalizzazione della solidarietà con la Palestina e in difesa dei diritti fondamentali di espressione e di assembramento. #Nakba75 ha chiamato a livello nazionale alla manifestazione del 20 maggio a Neukölln, poi vietata.

“Andremo in appello fino alla corte costituzionale. Il divieto di manifestare è per legge ultima ratio. La polizia dovrebbe in teoria sempre cercare dei compromessi per garantire che la manifestazione abbia luogo”, spiega Erna, attiva nella campagna. Talk ed eventi in tutta la Germania hanno avuto comunque un buon riscontro: “La speranza è far entrare questa tematica in ambito liberale. Sono questioni basiche di democrazia che grazie alla campagna sono diventate visibili”, racconta.

Ma la repressione è arrivata a mordere anche durante la mobilitazione. E’ successo a Marburg, dove l’università non ha voluto ospitare un evento considerato vicino a #Nakba75, e poi a Berlino, dove uno spazio ha annullato un’esposizione.

Tra i motivi, quello di essere vicini alla campagna per il boicottaggio di Israele BDS (Boicottare, Disinvestire, Sanzionare), colpita dalla risoluzione votata nel 2019 dal Bundestag che invita a togliere soldi pubblici a chiunque la sostenga: approvata da quasi tutto l’arco parlamentare, respinta da Linke e AfD (avevano presentato delle loro mozioni comunque non favorevoli al BDS), non ha valore di legge ma funziona benissimo come strumento di intimidazione e censura. E’ sufficiente essere sospettati di simpatizzare, soprattutto nelle università.

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“Se si invita una persona a tenere un discorso in un’università tedesca, cercano su Twitter se ha condiviso qualcosa della campagna BDS. Quello già basta”, dice Erna.

Prima ancora della risoluzione del 2019, la vera stretta contro il movimento di solidarietà con la Palestina c’è stata però nel settembre 2017. In quell’anno il governo federale getta le basi per la repressione degli anni a venire decidendo di adottare ufficialmente una più che controversa definizione di antisemitismo che riconosce Israele come “collettività ebraica” e permette perciò di identificare antisemitismo e antisionismo.

Per chi è attivo nel sostenere la lotta del popolo palestinese, oltre alla repressione, un costante confronto con pesanti accuse, attacchi, campagne diffamatorie riprese e diffuse da stampa e media. Lo si è visto, quest’anno, a un sit-in organizzato il 20 maggio dal gruppo di attivisti ebrei anti-sionisti Jews voice for peace nel quartiere di Kreuzberg per reclamare il diritto alla commemorazione della Nakba.

E’ stato l’unico evento autorizzato della giornata, ed durato solo un’ora: la polizia è intervenuta in modo massiccio con il pretesto di alcuni slogan “antisemiti”, ha costretto a sciogliere l’evento, fatto quattro arresti e passato subito la notizia alla stampa. Poco dopo la macchina del fango era già in moto e i giornali riprendevano la “velina”: la Berliner Zeitung pubblicava il tutto titolando “Antisemiti a Kreuzberg”- sotto, la foto di una persona portata via in manette: un noto attivista ebreo.

Verrebbe quasi da ridere, se non fosse in Germania triste realtà. “Questo significa per la Germania sfuggire alle proprie responsabilità”, conclude Zaid. “Invece di comprendere la propria storia, danno la responsabilità ai palestinesi dipingendoli come antisemiti. Ma se ci fossero buddisti in Israele, saremmo ugualmente contro Israele.”

* Fonte/autore: Berlin Migrant Strikers, il manifesto