Violenza contro le donne. Le responsabilità che il codice non può nascondere

Violenza contro le donne. Le responsabilità che il codice non può nascondere

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Nel caso dello stupro della diciannovenne a Palermo, i ragazzi che le hanno usato violenza vengono descritti alternativamente come «pentiti» o deresponsabilizzati proprio per aver agito in gruppo, sottolineandone la «bestialità» e accostando ad essa nella narrazione una non troppo velata forma di collusione da parte della «vittima» in questo caso non «perfetta». Lo stesso pregiudizio condiziona le scelte spesso «arbitrarie» prodotte nelle aule di tribunale, come accade fra la dimensione del malinteso spirito di possesso e quella della gelosia; quando c’è quest’ultima le aggravanti per futili motivi, per esempio, in molti casi non vengono concesse

 

Il caso dello stupro di gruppo a Palermo e l’ultimo caso di femminicidio nel catanese ci confermano che la radice della violenza maschile contro le donne è complessa e che, soprattutto, l’immaginario dentro cui sono collocati tali episodi fuori dalle aule dei tribunali spesso non si discosta da quello che riscontriamo nelle sentenze. Del resto, il punto di partenza da cui attingono le rappresentazioni della violenza sessuale è comune ed è radicato nelle relazioni sociali, costruite nel tempo e fondate su articolate «comunità di dominio», che orientano dall’interno e dall’esterno l’agire individuale, radicandolo nel contesto in cui – nel tempo – l’agire del singolo assume un significato anche nei confronti della comunità esterna.

A ben guardare, anche nelle sentenze, si combinano insieme, a seconda dei casi, frames interpretativi spesso contrastanti: di volta in volta i giudici o parlano di deprivazione culturale o di problemi psichiatrici, di un’indole violenta, riferendosi a qualcosa cioè che non è modificabile. Parlano di sopraffazione, elementi di gelosia o indicano la connivenza della vittima come determinante (anche quando non incide sul verdetto ma incide profondamente sulla sua rappresentazione «pubblica») mettendo in evidenza lo stato di prostrazione, di minorità della donna e assumendo il pericoloso «paradigma della vittima» (ben descritto da Tamar Pitch) che ingabbia la donna in ruoli predefiniti privandola di soggettività e autodeterminazione.

Nel caso dello stupro della diciannovenne a Palermo, i ragazzi che le hanno usato violenza vengono descritti alternativamente come «pentiti» o deresponsabilizzati proprio per aver agito in gruppo, sottolineandone la «bestialità» e accostando ad essa nella narrazione una non troppo velata forma di collusione da parte della «vittima» in questo caso non «perfetta» perché ubriaca e «volontariamente» poco presente a se stessa. Si cerca insomma di comprendere le ragioni di chi aggredisce ben prima di arrivare a un processo, lasciando poco spazio al dolore della donna stuprata, come accade, anche per i casi di femminicidio, dove la donna uccisa scompare e nelle sentenze è difficile trovare elementi che ci dicano chi fosse e talvolta manca anche la semplice indicazione della sua età.

Lo stesso pregiudizio condiziona le scelte spesso «arbitrarie» prodotte nelle aule di tribunale, come accade fra la dimensione del malinteso spirito di possesso e quella della gelosia; quando c’è quest’ultima le aggravanti per futili motivi, per esempio, in molti casi non vengono concesse.

Viene in mente un caso andato a giudizio nel 2015 a Palermo: il giudice nella sentenza di secondo grado utilizza il termine femminicidio e aggiunge che lo fa per mettere in evidenza la relazione di possesso e il senso di dominio che l’uomo esprime nei confronti della donna. Eppure, il collegio giudicante non riconosce all’assassino la premeditazione e parla invece di dolo d’impeto per segnalare che il motivo che lo ha spinto a quel gesto è stato il «sentirsi sbeffeggiato dalla donna».

Il desiderio sembra essere dunque quello di semplificare quanto accaduto e di delegare alla fase repressiva un problema complesso, per non assumersi le dovute responsabilità politiche, assistenziali, preventive o per non pensare ad azioni culturali ben più difficili da realizzare. Alcuni quotidiani hanno chiamato «belve» i ragazzi coinvolti nello stupro di gruppo commesso al Foro Italico di Palermo. Si tratta di una lettura semplificante, che nasconde e non vuole assumersi il peso della «normalità» di questa violenza endemica respirata nelle relazioni sociali, nei percorsi biografici di ciascuno di loro e nel rapporto con gli «altri significativi» che hanno contraddistinto le loro traiettorie di vita. Come per gli uomini maltrattanti o violenti, solo in casi residuali si riscontrano patologie psichiatriche mentre prevale il precipitato di una cultura maschilista e prevaricatrice. Il gruppo enfatizza tali «conflitti di dominio» soprattutto laddove (come nel caso palermitano) la ragazza aveva precedentemente rifiutato le pesanti avance di uno di loro.

La vittimizzazione secondaria, di cui spesso abbondano le sentenze, non si limita alle aule dei tribunali ma si manifesta, come in questo caso, nella descrizione della vittima vista come ondivaga, fragile, quando non si evidenzia una condotta sessuale disinibita all’origine del gesto. E tutto, alla fine, diventa spettacolo: dalla diffusione del video dello stupro di Palermo che raccoglie innumerevoli fruitori che catarticamente si identificando con gli aggressori, pensando in tal modo di allontanare quello stesso desiderio di dominio che si radica in possibili vissuti di frustrazioni e violenza.

Discutere unicamente della dimensione repressiva non ha alcun senso (né alcuna utilità) e nasconde – soprattutto da parte dei politici – il desiderio di allontanare da sé quelle responsabilità che ci appartengono e ci interrogano. Sia per gli episodi di stupro che in quelli dagli esiti mortali, occorrerebbe, invece, un serio e complesso programma di intervento a più livelli, ma l’interrogativo che dobbiamo porci è se davvero la società in cui viviamo (e la classe politica che ci «rappresenta») desideri muoversi in questa direzione. Nel frattempo, sono già 75 le donne morte per mano maschile dall’inizio del 2023.

* Fonte/autore: Alessandra Dino, il manifesto

 



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