«QUESTA STORIA non si può dimenticare. Non bastano dieci anni, non basta una vita. Vive con me. Sogno quei momenti tutte le notti», dice Solomon Asafa. È uno dei 155 sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre 2013: alle 3.15, nel buio, il mare di Lampedusa ha inghiottito 368 persone, quasi tutte eritree come lui. Il ragazzo – che ora ha 32 anni, la cittadinanza svedese e lavora come autista – è stato salvato da Vito Fiorino, un pescatore che lo bacia in fronte come a un figlio. Solomon ha due grandi tatuaggi sugli stinchi: a destra la data della strage, a sinistra il nome dell’isola che lo ha salvato.

RANDA, SHERIHAN, NURHAN, CHRISTINA sono un altro tatuaggio inciso sulla pelle di un altro corpo. Un’altra ferita inguaribile. Manal Youssef lo mostra sotto la Porta d’Europa, il monumento rivolto al mare per ricordare chi non è riuscito ad attraversarlo. Manal guarda il vuoto, con un’espressione a metà strada tra rabbia e dolore. Con l’altro braccio stringe suo marito Wahid, medico siriano appoggiato a un bastone a causa della poliomielite. «Quando la barca si è ribaltata ho chiamato le mie figlie, le ho cercate, ma non sono riuscito a trovarle. Era impossibile, c’erano 4-500 persone. Avevano dieci, otto, sei e due anni. Sono finite sott’acqua in un attimo», racconta Wahid. Il suo naufragio è il secondo, quello dell’11 ottobre, a 60 miglia da Lampedusa. Il «naufragio dei bambini» dopo il quale è iniziata l’operazione Mare Nostrum. Le cifre più accreditate parlano di 268 morti, tra cui 60 minori. Molti corpi non sono mai stati ritrovati.

LE PERSONE AVEVANO deciso di partire convinte che non si sarebbe ripetuta una nuova tragedia dopo soli otto giorni. Hanno chiesto aiuto alle autorità maltesi e italiane, che si sono scaricate la responsabilità a vicenda. La nave militare Libra era a poche miglia di distanza ma è rimasta nascosta. «Ci penso continuamente. Abbiamo avuto altre due figlie: mi capita spesso di chiamare quella di otto anni Randa, come la sorella che non c’è più», continua Wahid.

NELL’UNICO PROCESSO che ha portato alla sbarra le autorità italiane è intervenuta la prescrizione, ma per il giudice c’erano gli elementi per condannare un ufficiale della marina e uno della guardia costiera. Per la strage del 3 ottobre, invece, è stato condannato solo un trafficante, a 30 anni. A riconoscerlo Fanus Okbay. Oggi ha 26 anni e tre figlie. Vive in Svezia, lavora come cuoca. «Vengo qui per ricordare i miei amici che non ce l’hanno fatta e per ringraziare il signore di essere viva. Da una parte mi fa bene tornare sull’isola, dall’altra soffro ancora tanto», dice. Poi abbassa lo sguardo e continua: «Quel giorno non si può cancellare».

AMANUAL MEKONE è a Lampedusa per la prima volta. Non era su quel barcone, ma lì ha perso un cugino, sua moglie, il loro figlio. «Il nostro piccolo villaggio ha contato quattro vittime. La gente era sotto shock. Lo ero anch’io», dice. Poco dopo, comunque, è partito anche lui: Eritrea, Etiopia, Sudan, Libia. Un viaggio durissimo, in ogni tappa. «Non abbiamo scelta. Chi resta nel nostro paese deve fare il militare a vita», continua. È arrivato nel 2015, direttamente in Sicilia: lui è stato soccorso in alto mare. Non ricorda se da una nave militare o da una Ong.

OGGI I SOPRAVVISSUTI sono sparsi nei principali paesi del Nord Europa. Principalmente Svezia, Germania e Norvegia. «Quasi tutti hanno il passaporto, sono cittadini europei. Fanno lavori di buon livello, stabili. Qualcuno ha acceso un mutuo e comprato casa. Quasi tutti hanno due, tre figli. Anche di più», sintetizza Tareke Bhrane, presidente del Comitato 3 ottobre. «In Italia è rimasta una sola persona, ma la sua situazione è completamente diversa. Se per gli altri è il paradiso per lui è un limbo», continua. Questa storia mostra come per molti migranti l’Italia non sia un posto attraente, ma solo un paese di transito. È successo lo stesso con i superstiti di Cutro, succede ogni giorno con chi sbarca senza tanti riflettori addosso. Una realtà lontana dal vittimismo che il governo prova a giocarsi in Europa.

«IN QUESTI DIECI ANNI è cambiato qualcosa?», chiede uno dei 250 studenti giunti sull’isola da otto paesi europei. L’incontro si svolge nella palestra dell’istituto Pirandello. Qui ragazze e ragazzi riescono ancora a commuoversi davanti ai racconti dei sopravvissuti e dei pescatori. C’è anche Vincenzo Luciano che la mattina del 26 febbraio scorso era andato sulla spiaggia di Steccato di Cutro a cercare pesci e ha trovato cadaveri. «Non sono riuscito a salvare nessuno. Ho quei volti fissati nella testa, vengono nei sogni», dice piangendo.

SECONDO L’OIM dal 2014 a oggi nel Mediterraneo sono morte oltre 28mila persone, tra cui 1.100 bambini. È come se lo stadio Olimpico Grande Torino fosse finito in fondo al mare in un giorno di tutto esaurito. «Ma quella è solo la base da cui partire. Il mare ha inghiottito tantissimi fantasmi. Persino in procura arrivano genitori che cercano figli dispersi», dice nella piazza lampedusana intitolata a un castello che non c’è Salvatore Vella, procuratore aggiunto presso il tribunale di Agrigento. «I flussi migratori non si regolano inasprendo le pene – continua – Pensare di risolvere il fenomeno dando 30 anni a chi guida un barcone era follia nel 2004, lo è di più nel 2023».

IL COMITATO 3 OTTOBRE ha una richiesta forte per le istituzioni italiane ed europee: un database che raccolga le informazioni sui cadaveri per dar loro nome e cognome. Una scomparsa senza corpo pesa doppiamente su chi resta, a livello psicologico e a causa di mille ostacoli burocratici. Le istituzioni, però, qui a Lampedusa non ci sono. C’è qualche sindaco e amministratore locale del Pd, ma il governo ha disertato la cerimonia. L’unica rappresentante di livello nazionale è la vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone (5S), attesa oggi. «In questi dieci anni il coraggio politico è mancato tante volte. Hanno paura di venire qui – afferma Bhrane – Noi ci siamo perché vogliamo capire cosa intendono fare per mettere fine alle morti in mare. Ma forse su questo nessuno ha qualcosa da dire».

* Fonte/autore: Giansandro Merli, il manifesto