Il crollo della dottrina Netanyahu

Il crollo della dottrina Netanyahu

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L’attacco omicida e disumano di Hamas è arrivato proprio quando sembrava che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu stava per completare il suo capolavoro: la pace con il mondo arabo ignorando completamente i palestinesi

Gli eventi degli ultimi giorni sono senza precedenti. L’ultima volta che unità di combattenti ebrei e palestinesi (militari o paramilitari) si sono dati battaglia su un fronte così ampio in Israele-Palestina è stato nel 1948. Nel corso degli anni ci sono state diverse battaglie a Gaza e nelle città della Cisgiordania come Jenin e i reparti israeliani e palestinesi si sono affrontati in Libano nel 1982. Ma non c’è paragone con la portata di ciò che è avvenuto qui da sabato mattina ed è dal 1948 che i combattenti palestinesi non occupano le comunità ebraiche su questa scala.

Questo fatto non è solo un aneddoto storico, ma ha un significato politico diretto. L’attacco omicida e disumano di Hamas è arrivato proprio quando sembrava che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu stava per completare il suo capolavoro: la pace con il mondo arabo ignorando completamente i palestinesi. L’operazione militare ha ricordato agli israeliani e al mondo, nel bene e nel male, che i palestinesi sono ancora qui e che il conflitto secolare riguarda loro, non gli emiratini o i sauditi.
Nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite, due settimane fa, Netanyahu ha presentato una mappa del «Nuovo Medio Oriente», che raffigura lo stato di Israele che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo e che costruisce un «corridoio di pace e prosperità» con i suoi vicini in tutta la regione, compresa l’Arabia saudita. Uno stato palestinese, o anche l’insieme di enclave ridotte che l’Autorità palestinese apparentemente controlla, non appare sulla mappa.

Da quando è stato eletto primo ministro nel 1996, Netanyahu ha cercato di evitare qualsiasi negoziato con la leadership palestinese, scegliendo invece di ignorarla e metterla da parte. Netanyahu ha ripetutamente affermato che Israele non ha bisogno della pace con i palestinesi per prosperare; la sua forza militare, economica e politica è sufficiente anche senza di essa. Il fatto che durante gli anni del suo governo, soprattutto tra il 2009 e il 2019, Israele abbia sperimentato la prosperità economica e il suo status internazionale sia migliorato è, ai suoi occhi, la prova che sta seguendo la strada giusta.

Gli Accordi di Abramo, firmati con  Bahrein ed Emirati arabi e successivamente con  Sudan e  Marocco, hanno rafforzato definitivamente questa convinzione. «Negli ultimi 25 anni ci è stato ripetuto più volte che la pace con gli altri Paesi arabi sarebbe arrivata solo dopo aver risolto il conflitto con i palestinesi», ha scritto Netanyahu in un articolo pubblicato su Haaretz prima delle ultime elezioni. «Contrariamente alla posizione predominante – ha proseguito – io credo che la strada per la pace non passi per Ramallah, ma la aggiri: invece di far scodinzolare i palestinesi nel mondo arabo, ho sostenuto che la pace dovrebbe iniziare con i Paesi arabi, che isolerebbero l’ostinazione palestinese». Un accordo di pace con l’Arabia saudita avrebbe dovuto essere la ciliegina sulla torta della «pace per la pace» che Netanyahu ha passato anni a preparare.

Netanyahu non ha inventato né la politica di separazione tra Gaza e Cisgiordania, né l’uso di Hamas come strumento per indebolire l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e le sue ambizioni nazionali di creare uno Stato palestinese. Il piano di «disimpegno» da Gaza dell’allora primo ministro Ariel Sharon, nel 2005, era costruito su questa logica. «L’intero pacchetto chiamato stato palestinese è uscito dall’agenda per un periodo di tempo indefinito», ha dichiarato Dov Weissglas, consigliere di Sharon, spiegando l’obiettivo politico del disimpegno all’epoca. «Il piano fornisce la quantità di formaldeide necessaria affinché non ci sia alcun processo politico con i palestinesi».

Netanyahu non solo ha adottato questo modo di pensare, ma vi ha anche aggiunto la conservazione del dominio di Hamas a Gaza come strumento per rafforzare la separazione tra la Striscia e la Cisgiordania. Nel 2018 ha accettato che il Qatar trasferisse milioni di dollari all’anno per finanziare il governo di Hamas a Gaza, incarnando i commenti fatti nel 2015 da Bezalel Smotrich (allora membro marginale della Knesset, oggi ministro delle Finanze e padrone di fatto della Cisgiordania) secondo cui «l’Autorità palestinese è un peso e Hamas è una risorsa».

«Netanyahu vuole che Hamas stia in piedi ed è pronto a pagare un prezzo quasi inimmaginabile per questo: metà del Paese paralizzato, bambini e genitori traumatizzati, case bombardate, persone uccise», scriveva l’attuale ministro dell’informazione di Israele, Galit Distel Atbaryan, nel maggio 2019, quando ancora doveva entrare in politica ma era conosciuta come un’importante sostenitrice di Netanyahu. «E Netanyahu, in una sorta di oltraggioso, quasi inimmaginabile ritegno, non fa la cosa più semplice: far sì che l’esercito israeliano rovesci l’organizzazione». «La domanda è: perché?», ha continuato Distel Atbaryan prima di spiegare: «Se Hamas crolla, Abu Mazen potrebbe controllare la Striscia. Se la controllerà, ci saranno voci da sinistra che incoraggeranno i negoziati e una soluzione politica e uno Stato palestinese, anche in Giudea e Samaria [la Cisgiordania]. Questo è il vero motivo per cui Netanyahu non elimina il leader di Hamas, tutto il resto sono stronzate».

In effetti, Netanyahu stesso lo aveva ammesso un paio di mesi prima che Distel Atbaryan facesse i suoi commenti, quando aveva dichiarato in una riunione del Likud che «chiunque voglia ostacolare la creazione di uno stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia, isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria».

Il rafforzamento della barriera di Gaza è diventato un altro aspetto della strategia di Netanyahu. «La barriera impedirà ai terroristi di infiltrarsi nel nostro territorio», spiegò Netanyahu quando annunciò l’inizio dei lavori per aggiungere una barriera sotterranea che sarebbe costata più di 3 miliardi di shekel nel 2019. Due anni dopo, il giornalista israeliano Ron Ben-Yishai ha scritto su Ynet che l’obiettivo finale della recinzione, considerata una barriera impenetrabile per i terroristi, è quello di «impedire un collegamento tra Hamas a Gaza e l’Autorità palestinese in Giudea e Samaria».

Sabato mattina la barriera è stata abbattuta e con essa, nel complesso, la dottrina di Netanyahu (adottata dagli americani e da molti stati arabi) secondo cui è possibile fare la pace in Medio Oriente senza i palestinesi. Mentre centinaia di militanti attraversavano senza ostacoli il confine per occupare postazioni dell’esercito e infiltrarsi in decine di comunità israeliane distanti fino a 29 chilometri, Hamas ha dichiarato nel modo più chiaro, doloroso e omicida possibile che il conflitto che minaccia la vita degli israeliani è quello con i palestinesi e l’idea che possano essere aggirati via Riyadh o Abu Dhabi, o che i due milioni di palestinesi imprigionati a Gaza spariranno se Israele costruirà una recinzione sufficientemente elaborata: è un’illusione che ora si sta infrangendo con un terribile costo umano.

Non si tratta necessariamente di una buona notizia. È impossibile non definire le azioni di Hamas come crimini di guerra: il massacro di civili, l’uccisione di intere famiglie nelle loro case, il rapimento di civili, compresi anziani e bambini attualmente tenuti come ostaggio a Gaza viola le leggi di guerra e se la Corte penale internazionale eserciterà la sua giurisdizione su Israele-Palestina, i responsabili di queste azioni dovranno essere perseguiti. In altre parole, la «dichiarazione» di Hamas che il conflitto israelo-palestinese esiste ancora è avvenuta al prezzo del sangue di centinaia di persone innocenti.

Inoltre, non è necessariamente una buona notizia perché sembra che la conclusione che Israele sta e traendo dalla comprensione che il conflitto è qui in Israele-Palestina, e non in Arabia saudita, sia quella di «rovesciare Hamas» o «spianare Gaza». Il deputato del Likud Ariel Kellner e il giornalista di destra Yinon Magal rappresentano probabilmente una parte significativa dell’opinione pubblica israeliana (e certamente del governo) quando chiedono che la risposta sia un’altra Nakba.

Eppure, al di là dei giudizi morali, l’attacco di Hamas ha riportato tutti noi, soprattutto gli israeliani, alla realtà, ricordandoci che il conflitto è iniziato qui, nel 1948, e che nessuna cura magica può farlo sparire. E poiché Hamas, per quanto forte e capace di sorprese, non può assassinare sette milioni di ebrei, e poiché Israele, credo, non è in grado di compiere un’altra Nakba (e nemmeno di riconquistare Gaza), è possibile che dal trauma di questi giorni cresca l’idea che il conflitto debba essere risolto sulla base della libertà, dell’uguaglianza nazionale e civile, della fine dell’assedio e dell’occupazione. Dopo il trauma della guerra del 1973, che molti paragonano a quanto sta accadendo oggi, gli israeliani si sono resi conto che la pace poteva arrivare a costo di ritirarsi dal territorio egiziano occupato. La stessa consapevolezza può verificarsi dopo il trauma del 2023.

* Giornalista israeliano. Fonte: : il manifesto, Pubblicato originariamente su +972mag

 



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