Gaza. C’è un accordo parziale per gli ostaggi, ma l’attacco continua

Gaza. C’è un accordo parziale per gli ostaggi, ma l’attacco continua

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150 prigionieri palestinesi per 50 israeliani in mano ad Hamas e qualche giorno senza bombe per la popolazione di Gaza

 

«Voglio essere chiaro: siamo in guerra, continueremo la guerra fino a quando raggiungeremo i nostri obiettivi. Distruggeremo Hamas». Il primo ministro Netanyahu, in attesa che il suo governo votasse l’accordo di scambio con Hamas ha tenuto a precisare l’ovvio: pausa nei bombardamenti non significa fine dei bombardamenti.

Ma la pressione esterna (gli Stati uniti) e quella interna (le famiglie degli ostaggi e un pezzo consistente di società israeliana) lo hanno costretto a piegarsi, anche solo per pochi giorni. A dimostrazione che con Hamas si può parlare.

DOPO UN POMERIGGIO di vertici politici, mentre andiamo in stampa, l’annuncio ufficiale non era ancora giunto. L’opposizione di un pezzo di maggioranza israeliana – l’ultradestra di Sionismo religioso del ministro Smotrich e di Potere ebraico del ministro Ben Gvir, convinti che ora Hamas alzerà la posta – non sembrava però in grado di impedire lo scambio sostenuto anche dai servizi segreti israeliani. E dagli Stati uniti che da giorni davano l’intesa per imminente.

Gaza avrà un po’ di respiro, da tre a cinque giorni di tregua e un maggior flusso di aiuti umanitari in ingresso. Ce l’avranno anche i cinquanta ostaggi (trenta bambini e venti donne) che Hamas libererà a un ritmo di dodici al giorno. Ce l’avranno, forse, i 150 prigionieri politici palestinesi che verranno rilasciati, tutti minori e donne: del loro destino non ci sono dettagli, se saranno portati a Gaza o in Cisgiordania, e se passeranno indenni le 24 ore di «scrutinio».

Perché, secondo fonti negoziali, i cittadini israeliani avranno un giorno di tempo per presentare ricorso contro il rilascio una volta resi noti i nomi. Netanyahu ha aggiunto – con il voto del governo ancora in corso – come clausola dell’accordo visite della Croce rossa agli ostaggi ancora nella Striscia. Di certo entreranno aiuti umanitari, indispensabili a una Striscia in macerie.

IL MESSAGGIO VOCALE del dottor Ahmad Muhanna era arrivato lunedì sera: «La situazione qui all’Al-Awda Hospital è critica. L’esercito circonda l’ospedale e ha aumentato gli attacchi dal cielo e da terra e con i cecchini. Continuiamo però a dare assistenza ai pazienti, in pronto soccorso e in chirurgia generale, abbiamo dei piccoli generatori».

Qualche ora dopo, ieri, l’ospedale è stato bombardato all’altezza del terzo piano: sono stati uccisi tre dottori (di cui due di Medici senza Frontiere), Mahmoud Abu Nujaila, Ahmad Al Sahar e Ziad Al Tatari. L’Al-Awda (in arabo «ritorno») è a poche centinaia di metri dall’ospedale Indonesiano, nel nord di Gaza, semi distrutto dall’assalto via terra, soffitti collassati, letti e macchinari per le radiografie distrutti, finestre in frantumi, sangue sul pavimento insieme ai cadaveri.

L’AL-AWDA aveva accolto alcuni dei pazienti evacuati dall’Indonesian Hospital, un continuo sfollamento da un rifugio all’altro, senza alcun reale riparo, dentro un trauma collettivo ciclico come le ondate di trasferimenti forzati e perdita della propria terra.

Lì dentro all’ospedale indonesiano, spiegava ieri il ministero della sanità di Gaza, restano comunque 550 malati e feriti, in trappola e senza cure. Fuori, l’ospedale è circondato da ogni lato. Stesso destino dello Shifa, di cui ancora si attende che Israele dia conto del quartier generale di Hamas che sarebbe stato costruito nelle sue fondamenta.

Qualcosa l’ha detta l’ex premier Barak (primo ministro per appena due anni, schiacciato tra i due pesi massimi Netanyahu e Sharon e oggi tra i più aspri critici del governo) a una giornalista della Cnn a bocca aperta: i bunker sotto lo Shifa «abbiamo aiutato a costruirli noi», ingegneri israeliani, «decenni fa, quando amministravamo quel posto».

Prove o non prove, gli ospedali rimangono i principali terreni di battaglia insieme ai campi profughi (ieri le bombe su Nuseirat hanno ucciso almeno venti persone): paramedici e dottori continuano a essere arrestati ai checkpoint eretti dalle forze israeliane per spezzare in due la Striscia, ricordo dei tempi in cui l’occupazione militare aveva la stessa forma della quotidianità della Cisgiordania, prima di tramutarsi nel 2007 in un assedio esterno, visibile nelle operazioni militari e inesorabile nel divieto di uscire.

A preoccupare di più, lo ha ribadito ieri l’Unicef, è «il collasso del sistema sanitario, la tempesta perfetta per la diffusione di malattie», a causa della mancanza di medicinali, acqua potabile e bagni. Una tempesta che due giorni fa sul quotidiano israeliano Yediot Ahronot, l’ex generale e capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Giora Eiland, definiva utile a vincere la guerra: «Epidemie gravi nel sud di Gaza avvicineranno la vittoria e ridurranno le vittime tra i soldati»

E MENTRE il bilancio degli uccisi palestinesi continua a crescere (14.128, di cui 5.840 bambini e 3.550 donne, due terzi del totale, senza tener conto delle migliaia di corpi mai recuperati da sotto le macerie), gli ordini di evacuazione arrivano ormai a tutti, ovunque, anche all’ospedale da campo giordano eretto a sud.

Che sicuro non lo è mai stato: se i volantini lanciati dai caccia israeliani da giorni piovono sulla zona meridionale della Striscia, ieri l’esercito è stato ancora più chiaro: ha comunicato l’intenzione di non permettere il ritorno delle famiglie palestinesi nel nord di Gaza, anche quando le forze armate saranno operative a sud. Nessun ritorno a nord, operazioni a sud: un’equazione che non prevede rifugio.

L’esercito di Tel Aviv lo individua in determinate aree a ovest della Striscia, lungo il mare. O magari, come prospetta un numero sempre crescente di rappresentanti del governo e commentatori, l’espulsione verso l’Egitto. Un desiderio che da 45 giorni sbatte sul muro di resistenza del Cairo che – lo ha ribadito ieri il ministro degli esteri Shoukry – non ha intenzione di farsi carico di centinaia di migliaia di palestinesi.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati , il manifesto

 

 

 

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