Gaza. La criminale strategia israeliana di affamare i palestinesi

Gaza. La criminale strategia israeliana di affamare i palestinesi

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Centinaia di migliaia di palestinesi a Gaza hanno fame, un disastro senza precedenti che ha le sue radici nelle storiche pratiche israeliane di utilizzo del cibo come arma di guerra. Dal 1967 a oggi, la Striscia è sempre stata tenuta sull’orlo del baratro alimentare: dalle liste dei prodotti autorizzati a entrare a quelle sul numero di calorie necessarie a sopravvivere, dalla distruzione di campi agricoli alle campagne anti-Unrwa

 

Nei giorni successivi all’efferato attacco di Hamas del 7 ottobre contro basi militari, kibbutzim, città e il festival musicale Nova, diversi alti funzionari israeliani hanno annunciato l’intenzione di privare la popolazione civile di Gaza dei suoi bisogni più elementari.

All’epoca, oltre l’80% delle merci che entravano nella Striscia di Gaza proveniva da Israele, che ha mantenuto l’area sotto stretto blocco per diciassette anni. Il 9 ottobre, dopo due giorni di estesi bombardamenti aerei, il ministro dell’energia e delle infrastrutture del paese, Israel Katz, ha annunciato di aver ordinato il taglio di acqua, elettricità e carburante. «Ciò che era – ha detto – non sarà più».

Lo stesso giorno, il ministro della difesa, Yoav Gallant, ha chiesto un «assedio completo» dell’enclave: «Non ci sarà cibo, non ci sarà carburante». (Il suo ragionamento è da allora noto: «Stiamo combattendo animali umani»).

IL 17 OTTOBRE il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha insistito sul fatto che «finché Hamas non rilascerà gli ostaggi nelle sue mani… non entrerà a Gaza nemmeno un grammo di aiuti umanitari», ma solo «centinaia di tonnellate di esplosivi dell’aviazione». Il giorno successivo il primo ministro Benyamin Netanyahu ha posto la questione in termini altrettanto netti: «Non permetteremo che l’assistenza umanitaria sotto forma di cibo e medicinali dal nostro territorio arrivi alla Striscia di Gaza».

Tutte dichiarazioni dell’intenzione di privare i palestinesi di Gaza «di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’ostacolare intenzionalmente i rifornimenti di soccorso» – la definizione legale di «usare la fame dei civili come metodo di guerra», un crimine contro il diritto internazionale secondo lo Statuto di Roma. I giornali, la televisione e i social media israeliani, nel frattempo, erano saturi di appelli a distruggere la popolazione, in tutto o in parte: a «cancellare» Gaza, «appiattirla», trasformarla «in Dresda». Il 13 ottobre – il giorno in cui le autorità israeliane hanno ordinato a 1,1 milioni di persone nel nord di Gaza di evacuare le loro case entro ventiquattro ore – il presidente del paese, Isaac Herzog, ha dichiarato pubblicamente che nella Striscia non c’erano «civili innocenti».

Da allora, l’esercito israeliano ha bombardato a tappeto interi quartieri, uccidendo oltre 32mila palestinesi, di cui più di 13mila bambini (questi numeri non includono le persone disperse sotto le macerie). Più di 74mila residenti sono stati feriti. Il 70% delle infrastrutture civili è stato distrutto o danneggiato, lasciando molte aree inabitabili. A novembre, oltre il 75% della popolazione di Gaza, circa 1,7 milioni di persone, aveva già abbandonato le proprie case; molti sono stati costretti a spostarsi ripetutamente.

L’esercito ha attaccato sistematicamente decine di strutture sanitarie, lasciando un ospedale su tre a Gaza parzialmente funzionante e costringendo i medici a operare in condizioni gravemente inadeguate per un flusso costante di civili feriti, molti dei quali bambini. Questo livello di uccisioni e distruzioni in così poco tempo non ha precedenti nel XXI secolo. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi, Francesca Albanese, ha concluso all’inizio di questa settimana che «ci sono ragionevoli motivi per credere» che Israele abbia superato la soglia del genocidio.

Nel frattempo, troppe consegne di aiuti rimangono bloccate. Gli aiuti che arrivano a Gaza sono, come hanno avvertito le agenzie delle Nazioni Unite, «una mera goccia nell’oceano di ciò che è necessario». A oggi, Israele ha permesso in media l’ingresso di 112 camion al giorno, meno di un quarto del numero di quelli che entravano quotidianamente nei mesi precedenti al 7 ottobre, quando le necessità erano molto meno acute. A metà gennaio, dopo che sono emerse notizie secondo cui l’esercito israeliano stava ostacolando le spedizioni di aiuti, soprattutto nelle aree a nord di Wadi Gaza, una valle fluviale arida che separa le metà settentrionale e meridionale della Striscia, Netanyahu ha insistito sul fatto che il suo governo avrebbe permesso solo gli aiuti «minimi» necessari per prevenire una crisi umanitaria. Nelle sei settimane precedenti al 12 febbraio, le autorità hanno negato l’accesso al 51% delle missioni programmate dalle organizzazioni umanitarie per portare aiuti al nord.

QUESTE RESTRIZIONI hanno gravemente ridotto la capacità degli operatori umanitari di distribuire gli aiuti, così come le minacce alla sicurezza del personale umanitario e dei siti stessi. Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ha recentemente osservato che alla sua organizzazione, «la principale ancora di salvezza per i rifugiati palestinesi, viene impedito di fornire assistenza vitale al nord di Gaza». Dal 7 ottobre sono stati uccisi almeno 171 membri del team Unrwa.

In diverse occasioni le forze israeliane hanno sparato contro i camion dell’Onu che trasportavano scorte alimentari lungo percorsi che l’esercito stesso aveva definito sicuri, distruggendo gli aiuti e sospendendo le consegne. Altre volte le truppe israeliane hanno ucciso palestinesi in attesa di ricevere gli aiuti: in un caso, divenuto noto come il massacro della farina, sono state uccise almeno 112 persone che si erano riunite per raccogliere farina a Gaza City. A fine febbraio l’Unrwa ha annunciato di essere stata costretta a sospendere le consegne di aiuti al nord.

Israele non si è accontentato di impedire l’ingresso di cibo nella Striscia. Dall’inizio della guerra ha anche distrutto più di un terzo dei terreni agricoli di Gaza, più di un quinto delle serre e un terzo delle infrastrutture di irrigazione, tutte fonti vitali di cibo. Forensic Architecture sostiene che «la distruzione di terreni e infrastrutture agricole a Gaza è un atto deliberato di ecocidio». Ampie porzioni di terra sono state rase al suolo dai soldati che hanno utilizzato bulldozer D9 ed esplosivi per espandere la «zona cuscinetto» sul lato di Gaza del confine da trecento metri a circa ottocento metri, riducendo l’area della Striscia del 16%. Le forze navali israeliane hanno anche danneggiato o distrutto circa il 70% dei pescherecci di Gaza. Spinti dalla fame, alcuni pescatori escono ancora in mare con piccole imbarcazioni, rischiando l’ira delle forze navali; alcuni di loro, come riferisce l’associazione dei pescatori di Gaza, sono stati attaccati e uccisi.

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L’effetto di queste azioni è evidente. Da dicembre le agenzie umanitarie hanno avvertito che i palestinesi di entrambe le metà di Gaza sono a rischio di carestia, la forma più catastrofica di insicurezza alimentare tracciata dalla classificazione integrata delle fasi della sicurezza alimentare (Ipc). In un rapporto sostenuto dalle Nazioni Unite e pubblicato il 18 marzo, un comitato di esperti ha offerto una previsione terribile. «La carestia – hanno riferito – è ora prevista e imminente» per il 70% della popolazione del nord di Gaza – circa 210.000 persone – e «si prevede che diventi manifesta» entro maggio. I testimoni descrivono che la gente del posto macinava i cereali usati per l’alimentazione animale trasformandoli in farina e, quando il cibo per animali finiva, i residenti davano da mangiare erba ai loro bambini emaciati.

Secondo l’Unicef, la malnutrizione tra i bambini si sta diffondendo rapidamente e sta raggiungendo livelli senza precedenti. Al 15 marzo, nel nord di Gaza, un bambino su tre sotto i due anni soffre di malnutrizione acuta; almeno ventisette bambini sarebbero morti per fame. Il mese precedente gli screening nutrizionali condotti dall’Unicef e da altre organizzazioni hanno rilevato, secondo le parole dell’organizzazione,

che il 4,5% dei bambini nei rifugi e nei centri sanitari [nel nord di Gaza] soffre di grave deperimento, la forma di malnutrizione più pericolosa per la vita, che espone i bambini al rischio più alto di complicazioni mediche e di morte, a meno che non ricevano alimentazione e cure terapeutiche urgenti.

A causa degli attacchi di Israele, tuttavia, questo trattamento non è più disponibile a Gaza. L’Unicef ha aggiunto che nel mese precedente alla pubblicazione del rapporto, «la prevalenza della malnutrizione acuta tra i bambini di età inferiore ai cinque anni nel nord [era] aumentata dal 13% al 25%».

A MARZO, gli screening condotti dall’organizzazione nella zona centrale della Striscia hanno rilevato che il 28% dei bambini sotto i due anni è affetto da malnutrizione acuta; di questo gruppo, oltre il 10% presenta un grave deperimento. A Rafah, una zona sicura designata al confine meridionale dove gli operatori sono riusciti a fornire un po’ più di aiuti, gli screening hanno mostrato che il numero di bambini sotto i due anni con malnutrizione acuta è raddoppiato, passando dal 5% di gennaio a circa il 10% alla fine di febbraio. (Nonostante il suo status nominale di zona sicura, Rafah è stata ripetutamente bombardata). Tra lo stesso gruppo, il deperimento grave è quadruplicato nell’ultimo mese, superando il 4%.

Anche la malnutrizione tra le donne in gravidanza e in allattamento è aumentata rapidamente. A febbraio 2024, il 95% di queste donne dovrà affrontare una grave povertà alimentare. Poiché le madri che soffrono di malnutrizione non sono in grado di produrre latte a sufficienza per l’allattamento al seno, un numero maggiore di neonati deve dipendere dal latte artificiale per sopravvivere. Ma il latte artificiale richiede acqua sicura e pulita, che non è disponibile per la maggior parte delle madri, aumentando così il rischio di infezioni e malnutrizione.

Tutte queste sofferenze sono causate da persone e sono il risultato diretto dell’implacabile fuoco di sbarramento di Israele. Come la maggior parte delle carestie, è anche il prodotto di una storia più lunga. Dal 1967, quando Israele ha occupato per la prima volta la Striscia di Gaza, ha controllato il paniere alimentare palestinese, ingegnerizzando l’apporto nutrizionale dei suoi abitanti e usando il cibo come arma per gestire la popolazione. Per decenni Israele ha sistematicamente danneggiato la capacità della Striscia di produrre i propri alimenti, diminuendo l’accesso all’acqua potabile e al cibo nutrizionale. Comprendere queste politiche a lungo termine è fondamentale per dare un senso alla carestia che si sta verificando oggi a Gaza.

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La Striscia di Gaza è una regione piatta, stretta e arida che si estende per circa venticinque miglia lungo la costa del Mediterraneo. Quando Israele l’ha occupata, vi vivevano almeno 385.000 palestinesi, di cui circa il 70% erano rifugiati, fuggiti o espulsi dalle loro case durante la Nakba (catastrofe) del 1948. Israele, come ha scritto uno di noi, Neve Gordon, in uno studio del 2008 sull’occupazione, «assunse immediatamente il controllo di tutti i principali servizi di pubblica utilità, come l’acqua e l’elettricità, e si impadronì del sistema assistenziale, sanitario, giudiziario ed educativo».

Inoltre, ha introdotto una serie di meccanismi di sorveglianza per gestire la popolazione appena occupata. Le autorità israeliane contarono televisori, frigoriferi, stufe a gas, bestiame, frutteti e trattori; ispezionarono e spesso censurarono i libri di testo scolastici, i romanzi e i giornali; fecero inventari dettagliati delle fabbriche di mobili, sapone, tessuti, prodotti a base di olive e dolciumi; usarono immagini satellitari e aeree per monitorare la costruzione di case, edifici pubblici e aziende private; raccolsero dati demografici in tutta la regione, compresi quelli relativi alle aree urbane rispetto a quelle rurali e ai rifugiati rispetto ai residenti permanenti.

HANNO ESAMINATO il tasso di mortalità infantile, il tasso di crescita della popolazione, i livelli di povertà, il reddito pro capite e le dimensioni e la composizione della forza lavoro: età, sesso e settore di occupazione. Hanno anche prestato molta attenzione alle dimensioni e al tipo di industria nei territori, così come alla quantità di terra coltivabile, ai tipi di colture e al numero di bovini e pollame. Per rafforzare il suo controllo, Israele ha anche monitorato il tasso di consumo privato e il valore nutrizionale del paniere alimentare palestinese.

I rapporti ufficiali che ne derivano illustrano la velocità e il grado di sorveglianza a cui Israele ha sottoposto la società palestinese. In modo sorprendente, mostrano che alla fine degli anni ’60 e ’70 il governo militare ha cercato di aumentare l’apporto nutrizionale pro capite dei residenti di Gaza. In uno studio, il ministero dell’agricoltura israeliano si vantava del fatto che una serie di interventi, tra cui programmi di formazione professionale per gli agricoltori, avevano aumentato il consumo pro capite del palestinese medio di Gaza da 2.430 calorie al giorno nel 1966 a 2.719 calorie nel 1973.

In un altro rapporto si legge che nel 1968 Israele ha aiutato i palestinesi della Striscia a piantare circa 618mila alberi e ha fornito agli agricoltori varietà migliorate di sementi per ortaggi e colture da campo. Contrariamente a quanto riportato dal ministero dell’agricoltura, tuttavia, il principale catalizzatore del miglioramento del tenore di vita della popolazione non è stato il benevolo sussidio di una forza di occupazione, ma piuttosto le rimesse che sono affluite nell’economia di Gaza a partire dai primi anni ’70, dopo che Israele ha incorporato oltre il 30% dei lavoratori dell’enclave nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura, nell’interesse di estrarre manodopera a basso costo.

Gli archivi di Stato israeliani chiariscono che queste iniziative erano state concepite per normalizzare l’occupazione e placare la popolazione. Nel 1973 molti dei rifugiati di Gaza vivevano ancora nei campi in condizioni squallide. Quell’anno Moshe Dayan, allora ministro della difesa israeliano, propose di trasferirli in «nuove città, in appartamenti con acqua nei rubinetti, istruzione e servizi per i bambini». La motivazione non era tanto umanitaria quanto strategica: «Finché i rifugiati resteranno nei loro campi – spiegò – i loro figli diranno che vengono da Jaffa o da Haifa; se si trasferiscono fuori dai campi, la speranza è che sentano un attaccamento alla loro nuova terra».

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Israele ha iniziato a invertire queste politiche dopo lo scoppio della prima intifada palestinese, nel dicembre 1987. Negli anni successivi, la limitazione del valore nutrizionale e la creazione di insicurezza alimentare tra i palestinesi di Gaza sono diventati elementi centrali della strategia di contro-insurrezione dello Stato.

I cambiamenti sul campo sono stati incrementali. Nel 1989 Israele ha imposto un controllo più severo sul flusso di lavoratori da Gaza, emettendo tessere magnetiche con informazioni codificate sul «background di sicurezza» del lavoratore, sulle tasse e sulle bollette di luce e acqua. Poco dopo, durante la prima guerra del Golfo, ha imposto quella che le Nazioni Unite e le organizzazioni per i diritti umani chiamano una chiusura «ermetica» sulla Striscia, limitando ulteriormente la circolazione di persone e merci. Nel 1994, tra la firma del primo e del secondo accordo di Oslo, ha iniziato a costruire una recinzione lunga trentadue miglia e una strada di pattugliamento intorno al territorio.

Da allora, solo cinque passaggi collegano le due regioni, due dei quali funzionano solo in una direzione, consentendo l’ingresso di merci e persone da Israele a Gaza. Un sesto, il valico di Rafah, collega Gaza all’Egitto. Per tutti gli anni ’90 sono state imposte restrizioni al numero di lavoratori che potevano entrare in Israele e alla quantità e al tipo di merci che potevano entrare a Gaza. In questo periodo la Linea Verde, il confine riconosciuto a livello internazionale tra Israele e i Territori palestinesi occupati, è stata trasformata da confine «normalmente aperto» a confine «normalmente chiuso».

ALL’INDOMANI della seconda intifada palestinese, nel settembre 2000, Israele ha fatto un completo voltafaccia rispetto alle politiche attuate alla fine degli anni Sessanta e Settanta. Come parte dei suoi sforzi per reprimere la resistenza, l’esercito distrusse le fattorie, rase al suolo più del 10% dei terreni agricoli di Gaza e sradicò più di 226mila alberi. In questo periodo Israele ha anche consolidato il suo controllo dell’aria e del mare di Gaza, bombardando l’aeroporto costruito nel 1998 come parte degli accordi di Oslo e, nel 2002, distruggendo un porto marittimo che un consorzio franco-olandese stava costruendo come parte degli accordi raggiunti nel Memorandum di Sharm El-Sheikh del 1999.

Israele ha anche limitato le aree in cui i palestinesi potevano pescare a un piccolissimo tratto di mare al largo della costa, infliggendo un terribile colpo a uno dei pilastri del sistema alimentare di Gaza. Queste pratiche, unite a restrizioni sempre più severe sulla circolazione di persone e merci, hanno portato a una sostanziale insicurezza alimentare. Nel 2002 Clare Dyer, scrivendo per il British Medical Journal, ha riferito che il numero di bambini di Gaza affetti da malnutrizione era raddoppiato nel giro di due anni.

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Nel frattempo, il primo ministro Ariel Sharon cominciava a riconoscere che non era più fattibile dispiegare centinaia di soldati israeliani per proteggere gli ottomila coloni ebrei nella Striscia. Pensava inoltre che attuando un «piano di disimpegno» unilaterale Israele avrebbe potuto presentarsi come se avesse de-occupato Gaza. Questo, a sua volta, avrebbe contribuito a separare Gaza dalla Cisgiordania nell’immaginario collettivo e avrebbe permesso a Israele di fortificare i suoi insediamenti in Cisgiordania.

Nel 2005 il governo israeliano ha smantellato gli insediamenti illegali a Gaza e ha dislocato le sue truppe al confine. Allo stesso tempo, ha intensificato il controllo a distanza dell’enclave, costruendo basi militari appena fuori dalla Striscia, installando mitragliatrici controllate a distanza sulle torri di guardia, aumentando l’uso di droni e stabilendo una zona cuscinetto larga da 150 a 500 metri che consuma terreni agricoli e impone agli agricoltori di limitarsi a colture a foglia corta come spinaci, ravanelli e lattuga, presumibilmente per evitare di bloccare la visuale dei soldati.

IN QUEL PERIODO, Israele ha iniziato a stilare liste di prodotti che non potevano essere importati a Gaza, imponendo severe restrizioni sui beni commerciali e umanitari. Nel 2006, quando il Centro palestinese per i diritti umani e altre organizzazioni di Gaza hanno sottolineato come le norme israeliane avessero creato carenze di farina, latte artificiale e medicine, Dov Weisglass, consigliere del primo ministro israeliano, ha spiegato la politica del governo: «L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma non di farli morire di fame». Anche se queste restrizioni hanno aumentato la povertà e generato l’insicurezza alimentare, il governo israeliano si è assolto da ogni responsabilità. In linea con la formulazione del «piano di disimpegno» unilaterale di Israele – che afferma che dopo il ritiro delle truppe «non ci saranno basi per sostenere che la Striscia di Gaza è un territorio occupato» – il procuratore di Stato del paese ha sostenuto che Israele non ha più alcun dovere come potenza occupante.

In realtà, Israele ha continuato a esercitare le sue prerogative controllando i confini. Dopo la conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas nel settembre 2007, lo Stato ha formalmente imposto un blocco, bloccando 1,5 milioni di residenti in una regione che era già tra le più densamente popolate del pianeta. Come parte delle linee guida per l’attuazione del blocco, il gabinetto di sicurezza israeliano ha dato istruzioni all’esercito e ad altre agenzie di «ridurre la fornitura di carburante ed elettricità». Solo i beni essenziali per la sopravvivenza sarebbero stati autorizzati ad entrare.

Israele non ha certo nascosto i suoi sforzi per creare malnutrizione a Gaza. Scrivendo in queste pagine lo scorso dicembre, Sara Roy ha citato un cablogramma inviato dall’ambasciata statunitense a Tel Aviv al segretario di Stato il 3 novembre 2008: «Come parte del loro piano generale di embargo contro Gaza – si legge – i funzionari israeliani hanno confermato a [funzionari dell’ambasciata] in diverse occasioni che intendono mantenere l’economia gazawi sull’orlo del collasso senza spingerla oltre il limite». È stato consentito l’ingresso solo di beni di prima necessità, soprattutto attrezzature mediche, medicinali e prodotti igienici e alimentari essenziali. Tra gli alimenti vietati c’erano il cioccolato, il coriandolo, l’olio d’oliva, il miele e alcuni tipi di frutta, che Israele ha definito «articoli di lusso». La quota di carne fresca per l’intera popolazione era fissata a trecento vitelli alla settimana.

Nel 2008 un’azienda agroalimentare di Gaza ha presentato una petizione alla Corte suprema israeliana per contestare quest’ultima restrizione. L’avvocato di Stato ha risposto che il governo aveva calcolato che i residenti di Gaza avevano bisogno di esattamente trecento vitelli a settimana per soddisfare le loro esigenze umanitarie. In linea con la sua lunga tradizione in materia di diritti umani fondamentali dei palestinesi, la Corte ha rifiutato di intervenire.

POCO DOPO, l’organizzazione per i diritti umani Gisha – per la quale una di noi, Muna Haddad, ha lavorato come avvocata – ha iniziato quella che è diventata una battaglia legale durata tre anni e mezzo per declassificare i documenti che mostravano che Israele aveva ideato una serie di formule matematiche per determinare la quantità e i tipi di cibo che avrebbe permesso a Gaza. Nel 2012 il gruppo ha ottenuto la divulgazione di un documento del ministero della difesa, basato su un modello prodotto dal personale del ministero della salute, chiamato «Consumo di cibo nella Striscia di Gaza – Linee rosse». Il documento include tabelle e grafici che suddividono il consumo alimentare giornaliero per sesso ed età e calcola l’apporto calorico minimo che consentirebbe «un’alimentazione sufficiente per la sussistenza senza lo sviluppo di malnutrizione».

Il documento ipotizzava che i palestinesi di Gaza avrebbero potuto importare solo quantità limitate di «generi alimentari di base», come farina, riso, olio, frutta, verdura, carne, pesce, latte in polvere e latte per bambini, che Israele ha calcolato potessero essere consegnati con settantasette camion al giorno. Aggiungendo le medicine, le attrezzature mediche e i prodotti per l’igiene e l’agricoltura, il numero di camion autorizzati a entrare ogni giorno, per cinque giorni alla settimana, raggiungeva i 106, oltre a sessanta camion di grano alla settimana attraverso un nastro trasportatore al valico di Karni, portando il numero totale di camion autorizzati a 118 al giorno.

Questi calcoli davano per scontato che il cibo che entrava a Gaza sarebbe stato distribuito equamente tra la popolazione, un’ipotesi senza precedenti in nessun contesto storico o geografico. Israele presumeva inoltre che solo il 10% del fabbisogno alimentare della popolazione sarebbe stato soddisfatto da frutta e verdura prodotte a Gaza, un’ammissione implicita di quanto lo Stato fosse arrivato a controllare a fondo le vie di fuga dei palestinesi.

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Questi calcoli si basavano su «tempi regolari». Eppure, in ogni grande ciclo di violenza – e ce ne sono stati cinque dal 2008 – Israele ha abbassato drasticamente il «minimo», provocando picchi di malnutrizione. A più di due settimane dall’inizio della guerra del 2008-2009, Human Rights Watch ha riferito che «i panifici non avevano ricevuto farina di grano dall’inizio dell’operazione di terra di Israele, e solo nove dei quarantasette panifici di Gaza erano operativi».

LO STESSO AGOSTO, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha) ha documentato che circa il 75% della popolazione di Gaza era considerata insicura dal punto di vista alimentare. Le cause principali erano «l’aumento della povertà, la distruzione delle risorse agricole e l’inflazione dei prezzi dei principali prodotti alimentari». Questa guerra, aggravata dal blocco imposto da Israele, ha provocato «un graduale cambiamento» nella dieta dei residenti di Gaza, passando da alimenti ricchi di proteine ad alimenti a basso costo e ricchi di carboidrati, «che possono portare a carenze di micro-nutrienti, in particolare tra i bambini e le donne in gravidanza».

Nel 2010 la Mavi Marmara, nave ammiraglia di una flottiglia pilotata da attivisti filo-palestinesi che trasportava 10mila tonnellate di aiuti, ha tentato di sfidare il blocco e di portare aiuti umanitari a Gaza. Il 31 maggio le forze israeliane hanno attaccato la nave e ucciso dieci degli attivisti a bordo, suscitando un’indignazione diffusa. Alcune settimane dopo, nella speranza di migliorare l’immagine del paese, il gabinetto di sicurezza ha emanato un piano per allentare le restrizioni sui beni civili che possono entrare a Gaza. Ora erano consentiti articoli come ketchup, cioccolato e giocattoli per bambini, ma le autorità continuavano a proibire migliaia di articoli «a doppio uso» che potevano essere utilizzati sia per scopi civili che militari. L’elenco dei prodotti a duplice uso è ampio e vago e comprende betoniere, materiali necessari per riparare le barche da pesca, fertilizzanti, contenitori di plastica per le piante e pompe per innaffiarle.

Include anche articoli necessari per garantire la qualità delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie, che devono essere riparate dopo ogni serie di attacchi. Nell’ottobre 2021 il Global Institute for Water, Environment and Health e l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor hanno avvertito il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che i residenti della Striscia non hanno praticamente accesso all’acqua potabile:

È ormai assodato che il 97% dell’acqua di Gaza è contaminato; una situazione resa sostanzialmente peggiore da una grave crisi elettrica che impedisce il funzionamento dei pozzi d’acqua e degli impianti di trattamento delle acque reflue, portando circa l’80% delle acque reflue non trattate di Gaza a essere scaricate in mare, mentre il 20% si infiltra nelle acque sotterranee.

I civili palestinesi, hanno continuato, sono «ingabbiati in una baraccopoli tossica dalla nascita alla morte… costretti ad assistere al lento avvelenamento dei loro figli e dei loro cari attraverso l’acqua che bevono e probabilmente il terreno in cui raccolgono».

In altre parole, ben prima dell’attuale guerra, Israele aveva reso la maggior parte degli abitanti di Gaza indigenti e denutriti. I bambini appena nati avevano sette volte più probabilità di morire rispetto a quelli nati a un’ora di distanza a Beersheba o Tel Aviv. Nel 2021 il Pil pro capite di Gaza ha raggiunto circa 1.050 dollari, rispetto ai 52.130 dollari di Israele. Non sorprende quindi che nel 2022 l’Unrwa abbia fornito cibo a più di 1.139.000 rifugiati a Gaza, quattordici volte di più rispetto al 2000. A dicembre l’Unrwa ha riferito che l’81% dei rifugiati nella Striscia viveva al di sotto della soglia di povertà nazionale. Ha anche rilevato che l’85% delle famiglie acquistava gli avanzi dal mercato e il 59% cercava assistenza o doveva prendere in prestito cibo dai parenti. Più di tre quarti delle famiglie riducevano sia il numero di pasti giornalieri sia la quantità di cibo per ogni pasto.

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Dall’inizio dell’attuale guerra, Israele avrebbe potuto avere interesse a far arrivare gli aiuti ai palestinesi, se non altro per nascondere le violenze che i suoi militari stanno commettendo. Invece, con l’accelerazione della crisi alimentare a Gaza, il governo ha lanciato una campagna concertata per eliminare l’Unrwa. Già a gennaio, come ha recentemente riportato Amjad Iraqi su queste pagine, la sottocommissione della Knesset per la politica estera e la diplomazia pubblica aveva discusso su come gestire l’agenzia. Cita una ricercatrice del Kohelet Policy Forum di nome Noga Arbell: «Sarà impossibile vincere la guerra se non distruggiamo l’Unrwa, e questa distruzione deve iniziare immediatamente».

ACCUSANDO dodici dipendenti dell’Unrwa di coinvolgimento diretto negli attacchi del 7 ottobre e più di mille di coinvolgimento vagamente definito con Hamas o la Jihad islamica palestinese, Israele ha prontamente chiesto a tutti i governi stranieri di defiscalizzare l’agenzia. Con 13mila lavoratori a Gaza, l’Unrwa è il secondo datore di lavoro della Striscia, dopo il governo di Hamas. Non solo fornisce servizi a oltre 1,78 milioni di rifugiati registrati, ma «pompa 600 milioni di dollari all’anno nell’economia della Striscia, che vale 2 miliardi di dollari, attraverso stipendi, pagamenti ai fornitori, aiuti alimentari, costruzioni e altre attività», ha scritto l’International Crisis Group in un rapporto pubblicato un mese prima dello scoppio della guerra:

Se i servizi dell’Unrwa e i posti di lavoro scomparissero, e con essi il potere d’acquisto che ne deriva, l’impatto si irradierebbe in tutta la società gazawi. Molti perderebbero i propri mezzi di sostentamento, con il conseguente crollo delle piccole imprese e la riduzione delle nuove costruzioni. I rifugiati rimarrebbero senza assistenza sanitaria di base e i loro figli senza istruzione. Questi sono solo gli effetti più evidenti.

La situazione attuale è molto più grave. Da ottobre, ampi segmenti della popolazione di Gaza vivono nelle scuole, nelle cliniche e negli altri edifici dell’Unrwa, facendo affidamento sull’agenzia non solo per guadagnare da vivere, ma anche per cibo e rifugio per restare in vita. Di recente, l’Unione europea ha dichiarato di non aver ricevuto prove concrete da Israele a sostegno delle sue accuse contro il personale dell’Unrwa, ma il nuovo bilancio degli Stati Uniti elimina comunque i fondi per l’agenzia fino all’anno prossimo.

Nel frattempo, il 24 marzo Lazzarini ha riferito che le autorità israeliane hanno informato l’agenzia «che non approveranno più i convogli alimentari dell’Unrwa verso nord». In un’intervista con Al Jazeera, Sam Rose, direttore della pianificazione dell’agenzia, ha sottolineato che la decisione avrà implicazioni «drammatiche»: «Semplicemente, più persone moriranno». Come se ciò non bastasse, negli ultimi tre mesi i manifestanti israeliani guidati da coloni della Cisgiordania, evidentemente insoddisfatti dalla devastazione che Israele ha già causato, si sono assunti il compito di bloccare le consegne di aiuti al valico di Kerem Shalom. Con ogni nuovo sviluppo, si può solo chiedersi cosa ancora intenda fare Israele per annientare la popolazione di Gaza e rendere impossibile il recupero della regione.

* Questo articolo è stato pubblicato originariamente su The New York Review of Books

* Fonte/autore: il manifesto



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