Netanyahu: “No ai confini del ’67 ma faremo compromessi dolorosi”

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WASHINGTON – Era atteso come il discorso «della sua vita» quello che ieri mattina il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha pronunciato davanti al Congresso americano. Interrotto per 30 volte dagli applausi dei parlamentari americani – e in verità  anche da qualche contestazione – Netanyahu si è detto a favore dei «due Stati» e pronto a «dolorosi» compromessi per raggiungere una «storica pace con i palestinesi», ma ha fissato delle condizioni che non saranno facili da accettare per il presidente Abu Mazen.

Il premier israeliano ha addossato la responsabilità  del fallimento dei negoziati ai palestinesi, non disposti a riconoscere lo Stato ebraico, il conflitto «non è mai stato sulla creazione di uno Stato palestinese» quanto piuttosto «sull’esistenza dello Stato ebraico». Netanyahu, ha parzialmente respinto le proposte avanzate da Obama per una ripresa dei negoziati in Medio Oriente, sostenendo che Israele non tornerà  mai ai confini del 1967, né è disposto a dividere la città  di Gerusalemme che «è e resterà  per sempre la capitale di Israele». Si è detto pronto a «dolorosi» compromessi per raggiungere la storica pace con i palestinesi, «saremo generosi sulle dimensioni del futuro stato palestinese», ma è impossibile tornare «ai confini indifendibili del 1967», perché – ha spiegato – «dobbiamo tenere conto dei cambiamenti demografici e economici della regione».
«La nostra presenza in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) è una presenza sulla terra dei nostri padri – ha detto il premier – non è come quando la Gran Bretagna controllava l’India o il Belgio occupava il Congo. Lo stato degli insediamenti verrà  deciso solo nei negoziati, ma dobbiamo anche essere onesti. Così oggi dico qualcosa che dovrebbe essere detta pubblicamente, da tutti quelli che vogliono seriamente la pace. In qualsiasi accordo di pace che metta fine al conflitto, parte degli insediamenti sarà  al di là  dei confini di Israele», ha proseguito il primo ministro che non ha mai fatto riferimento – come invece aveva fatto Obama giovedì scorso – a uno scambio compensativo di territori fra Israele e palestinesi. Il rifiuto israeliano di estendere la moratoria alle costruzioni dei coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania ha portato al fallimento dei negoziati di pace alla fine dello scorso anno e ieri Netanyahu non ha preso nessun impegno sul blocco di queste costruzioni. Anzi ha addossato la responsabilità  del fallimento dei negoziati ai palestinesi, non disposti a riconoscere lo Stato ebraico: il conflitto «non è mai stato sulla creazione di uno Stato palestinese» quanto piuttosto «sull’esistenza dello Stato ebraico». Il presidente palestinese «stracci il patto con Hamas, sieda con noi e negozi la pace». E’ questa l’altra condizione posta ieri da Netanyahu che ha definito l’annunciata decisione palestinese di ricorrere all’Onu un grave errore perché «la pace non può essere imposta, deve essere negoziata e deve essere negoziata con un partner impegnato per la pace», non Hamas che vuole «la distruzione di Israele» definendo il movimento integralista che controlla la Striscia di Gaza come «la versione palestinese di al Qaeda».
Negative, com’era prevedibile, le reazioni dell’Anp. Netanyahu «pone altri ostacoli sulla strada della pace», il primo commento dell’ufficio di Abu Mazen a Ramallah che giudica inaccettabile «alcuna presenza israeliana nel futuro Stato palestinese», ribadendo che la pace «deve basarsi sui confini del 1967, con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese». «Siamo noi a non avere un partner per la pace», la reazione di Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp.

 


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