Scrittore, soldato e tour operator le mille vite di Mister Hem

Loading

Chissà  forse da qualche parte c’era un trucco nascosto. Magari anche a casa sua, quella da dove se n’era andato, stanco delle lezioni di violoncello che gli imponeva la madre. Oak Park, ovest di Chicago, sul lago Michigan. Casa vittoriana, ora trasformata in un museo, foto e lettere, viale di querce. Niente d’interessante, nostalgia zero. Del resto anche lui scrisse alla sorella: «Vieni via, c’è un mondo là  fuori». Poco più in là  ha vissuto e progettato l’architetto Frank Lloyd Wright e lo scrittore Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan. Però a nord c’è il lago, quello misterioso di Campo indiano, dove Nick chiede: «È difficile morire, babbo?» e sempre lì c’è Horton Bay dove Hemingway scopre le quattro parole per dire basta, quando l’amore diventa freddo. «Non è più divertente». Lei è la Marjorie de La fine di qualcosa. A casa Hemingway nessun accenno al suicidio dello scrittore, come se lo sparo fosse un atto futile e maleducato, di quelli che sporcano la tappezzeria (si tolse la vita in garage, nell’Idaho, esattamente cinquant’anni fa, il 2 luglio 1961). Stesso gesto per padre, fratello, sorella, nipote (Margaux).

La sua Africa. A Nairobi si fermava al New Stanley Hotel, albergo in centro, nel cui bar nel ’23 era stata servita la prima birra locale. Negli anni Settanta c’era un direttore italiano, che non sembrava molto affascinato dal premio Nobel, ricordava solo la sua ubriachezza. Per riprendersi meglio scalare il Kilimangiaro per via «della carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo». Il giovane Holden si chiede dove vadano le anatre d’inverno a Central Park, è una domanda curiosa e assurda. Salinger è l’anti-Hemingway, forse non sarebbe esistito senza di lui: niente sport, anzi una schiappa, niente eroismi. Le anatre di Salinger fanno sorridere, il leopardo delle nevi del Kilimangiaro inquieta come re Lear.
Hemingway si metteva al centro, s’impossessò del mondo, come se non fosse esistito prima di lui: spiegò l’America all’Europa e l’Europa all’America. Non era solo uno scrittore, ma un tour operator, faceva, lanciava luoghi, alberghi, bar: l’encierro a San Firmino, le soste al Café Iruà±a, magnifico esempio di liberty, l’hotel La Perla a Pamplona. Mare, montagne, laghi, fiumi, savane. Fronti e trincee, guerre e liberazioni, tori e toreri, coraggi e paure. Generazione perduta e ritrovata. Fiesta, olè. Convinse mezzo mondo che per scrivere bisognava andare a Parigi. Rese attraente l’Africa prima della baronessa Isak Dinesen, in arte Karen Blixen, che comunque in Kenya c’era arrivata già  da tempo (e non per turismo). Hemingway sapeva quando era il momento. E quel momento raccontava e reinventava. Non gli interessava la psicanalisi dal male, ma solo l’arrivo del colpo, la fitta del dolore. «Il vecchio sognava i leoni». Quando a Scott Fitzgerald morì il padre, l’amico Ernest gli scrisse: «Non sprecare materiale così ricco». Non era cinico, voleva solo che l’altro non si distraesse. Ma Scott non combatteva le frustrazioni, anzi le corteggiava: «Stare a letto e non dormire. Volere qualcuno che non viene. Cercare di piacere e non riuscirci».
La casa di Hem a Cuba era la Finca Vigia, a San Francisco de Paula, nei dintorni della capitale. Scriveva in piedi, a matita. Di mattina. Poi a macchina sullo scrittoio. Accanto aveva ottomila libri e 57 gatti. Aveva bisogno di fisicità : una nuotata in piscina, un po’ di boxe con i ragazzini e poi il baseball. «Se sei innamorato scrivi meglio». Lo ispirava anche l’hotel Ambos Mundos, dove c’era Esperancia, la vestale della chiave 511, camera con vista mare. Mojito e daiquiri sì. E altro consiglio: «Tenetevi lontani da telefoni e seccatori». Mai disperdersi, come Fitzgerald.
Da Cuba a Key West in Florida, al numero 907 di Whitehead Street, la villetta antica, le palme, i banani, il luogo dove scrisse Addio alle armi, i famosi gatti polidattili, a sei dita, Snowball il suo preferito, ma soprattutto la piccola libreria in bagno. Dunque al cesso si legge. E gli occhialetti lasciati sul letto, un po’ come quelli (insanguinati) di John Lennon quando gli spararono davanti al Dakota. Hemingway aveva disciplina. «Ho riscritto 39 volte l’ultima pagina di Addio alle armi prima di essere soddisfatto». Trovare le parole giuste: correggersi, non accontentarsi, migliorarsi. Eliminare quello che non serve. La famosa teoria dell’iceberg: è grosso e si vede, ma quello che lo tiene in piedi è la parte invisibile che sta sotto. «Le cose esistono, capitano, molte le sai, altre le ignori, ma tramite la tua invenzione prendono una nuova vita. Si scrive per essere immortali». Allenarsi, essere onesti. Il talento è un padrone feroce, non dà  libertà , regala splendida schiavitù. Non conta quello che bevi, come viaggi, cosa cerchi. Non c’è più quell’Africa, gli elefanti sono quasi estinti, non c’è più quella Spagna, la corrida in Catalogna è bandita, e sulla strada che scende dal passo di Navacerrada dove sul Puente de la Cantina, al chilometro 130 della statale, il partigiano Robert Jordan piazza la dinamite, non c’è nulla che ricordi la guerra civile e che la campana suona anche noi. Però, quando di notte cammini per il mondo, speri che i baristi abbiano letto Un posto pulito illuminato bene e non spengano presto la luce.

 


Related Articles

L’immaginario anti accademico è pieno di idee

Loading

Resnais, Haneke, Kiarostami…la «rive droite« geografica della nouvelle vague ha dominato le giornate di metà  festival. Poi Argento, Bertolucci, Loach… Si dirà . Cannes scodella la gerontocrazia autoriale! Non ha più idee. Né dà  spazio ai giovani. E invece.

La beffa del vitalizio agli artisti “Dimostrate di non essere morti”

Loading

Da Ledda a Ceronetti, scatta l’obbligo di esibire ogni mese un certificato. L’autore di “Padre padrone”: “Costretto a fornire la prova della mia esistenza in vita”. Una quindicina oggi in Italia gli aventi diritto all’assegno istituito dalla legge Bacchelli

L’immaginazione sociale sepolta dal design

Loading

Scettico, neoapocalittico. Irriverente, radical. Gli aggettivi non hanno mezze misure quando si scrive di Evgeny Morozov, teorico dei media noto per il suo saggio sull’Ingenuità  della Rete (il titolo inglese, Net delusion era più aderente al contenuto) e per il blog dove commenta la vita dentro lo schermo, attività  che gli aperto le porte di molte e impostanti redazioni («Wall Street Journal», «Financial Times», «Washington Post»).

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment