Hitchens, l’ateo ribelle nemico dei conformisti e amato dagli avversari

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PARIGI — Christopher Hitchens è morto, e la fine di qualsiasi altro giornalista, scrittore o polemista che avesse scritto o detto metà  delle sue frasi assassine (è un complimento) ispirerebbe ora probabilmente turbamento, in qualche caso sollievo, o silenzio. Invece «Hitch» era talmente bravo da essere fino all’ultimo, e sempre di più, amato, ammirato, in malattia coccolato e — tra le persone meno vicine alle sue idee — ricoperto da quell’affetto incondizionato che si prova per un figlio forse impertinente, ma in fondo ricco di così tanto, tanto talento. 
Da quando il sito di «Vanity Fair» ha annunciato, ieri mattina, che il 62enne Hitchens, malato di cancro all’esofago, aveva chiuso gli occhi per sempre, lo stesso mondo che si appresta a celebrare il Natale piange per la perdita dell’uomo che se la prese violentemente e ripetutamente — tra gli altri — con la Chiesa cattolica, quella mormone, la festa ebraica della Hannukah, quella cristiana del Natale (appunto) e Madre Teresa di Calcutta (titolando il libro, con blasfema genialità , La posizione della missionaria), e si avventò contro lo scarso senso dell’umorismo delle donne, e poi attaccò Henry Kissinger, Bill Clinton, Fidel Castro, Cindy Sheehan (la mamma pacifista ostile alla guerra in Iraq, lui era a favore), Benedetto XVI, naturalmente gli «islamofascisti» e infine, con coerente e felice scelta di tempo, Dio.
Christopher sarebbe probabilmente il primo a sorridere nel vedersi oggi così beatificato, lui che ha fatto dell’ateismo militante la sua ultima grande battaglia, e della lotta contro le religioni la naturale prosecuzione dell’insofferenza verso tutti i totalitarismi. L’ondata di emozione planetaria per «Hitch», l’ateo che rischia curiosamente di diventare un santo della laicità , ricorda in parte, almeno nei modi se non nei numeri, quella che accompagnò il 5 ottobre scorso l’addio a Steve Jobs. E come allora, la grandezza dell’uomo e del suo ruolo si ricostruiscono anche grazie all’affetto dimostrato nelle ultime ore dai compagni illustri e dagli sconosciuti. 
Il suo migliore amico Martin Amis, che Hitchens definì «la sola bionda di cui mi sono mai innamorato», in un dibattito sarebbe stato sempre dalla sua parte, sicuro di vincere, «anche contro Cicerone o Demostene». Salman Rushdie ha scritto ieri su Twitter: «Arrivederci mio grande amico. Una grande voce si è spenta, un grande cuore si è fermato». Fu in difesa di Rushdie contro la fatwa degli ayatollah che Hitchens fece il suo debutto retorico contro l’integralismo islamico e l’oscurantismo religioso, rimasti poi tra i nemici preferiti per tutta la vita. «Hitch» ospitò Rushdie nella sua casa di New York, e non ebbe dubbi nello schierarsi perché «era questione, se posso dirlo così, di tutto quello che odiavo contro tutto ciò che amavo — ha scritto poi nella sua autobiografia Hitch 22 —. Sotto la colonna odio: dittatura, religione, stupidità , demagogia, censura, prepotenza e intimidazione. Sotto la colonna amore: letteratura, ironia, humor, l’individuo e la difesa della libertà  di espressione». 
In onore di Hitchens l’attore e scrittore Stephen Fry ha organizzato un mese fa a Londra una serata pubblica con il compagno di lotte anticlericali Richard Dawkins e l’altro grande amico Ian McEwan, in collegamento Internet con l’ospedale di Houston dove stava tenendo compagnia al malato; negli stessi giorni è circolato su YouTube un commovente video con decine di ragazzi che brindano «To Hitch», alla salute del loro eroe. 
Ian Buruma colse un aspetto fondamentale del personaggio quando scrisse sul «New Yorker» che «Christopher, più che essere un uomo di azione, è alla continua ricerca del momento decisivo, come lo fu per altri la Guerra di Spagna: il momento in cui decidi di stare dalla parte giusta, e di affrontare il nemico». 
Accanto a questa testardaggine nel distinguere continuamente tra male e bene, al romantico attaccamento alla verità  terrena che gli fece abbracciare cause controverse — come la guerra in Iraq — pentendosene molto raramente (fu capace però di abbandonare il trotzkismo frequentato in gioventù), Hitchens è così amato forse anche perché era colto, severo e impegnato nelle cause importanti, e allo stesso tempo ironico, leggero e beffardo in faccia all’esistenza. 
«Hitchens — scrisse di lui Ian Parker, anni fa — conduce la vita che un tredicenne sveglio sognerebbe di fare una volta diventato adulto: si sveglia quando gli pare, lavora da casa, è sposato a una donna che porta scarpe leopardate con i tacchi e sta a chiacchierare con gli amici fino a notte fonda. Arrivo a casa sua poco dopo mezzogiorno, Hitchens mi accoglie decretando che “è l’ora di prendere un cocktail” e ne serve a entrambi una dose abbondante. I capelli gli cadono sugli occhi e li scosta con un leggero movimento della punta delle dita, dritte come quelle di un modello». 
Negli ultimi mesi «Hitch» non ne aveva più, di capelli, per colpa della dolorosissima chemioterapia ricevuta a «Tumortown», come chiamava l’ospedale di Houston dove è morto e dove — nonostante gli auspici di tanti — non si è convertito all’ultimo momento. L’autore di Dio non è grande ci ha lasciati; e se per caso si fosse sbagliato e ora si trovasse in cielo, non vorremmo essere nei panni del padrone di casa.


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