Il nuovo Bach sorpreso fra viole e suoni sintetici

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Poco conosciuto ed eseguito qui da noi ma assai noto in Francia e negli Stati uniti, il compositore cinquantanovenne Philippe Manoury è stato protagonista di una giornata speciale del festival romano di Nuova Consonanza. Ha discusso della sua poetica con pubblico e musicologi, ha presenziato alla prima italiana di una sua opera per viola e live electronics. Il titolo (e non solo il titolo) del lungo brano, circa 50 minuti, Partita I, rimanda alla Partita n. 2 in re minore di Johann Sebastian Bach. Trascritta per viola, però. Tutte e due le opere sono state interpretate alla Sala Casella della Filarmonica, in un raffronto preciso, quasi di «filologia delle motivazioni a comporre», dal violista Christophe Desjardins. In quella di Manoury l’importante, anzi decisivo, supporto veniva da Christophe Lebreton, virtuoso, a suo modo co-autore insieme a Manoury stesso, che gli sedeva accanto, dei dispositivi elettronici in tempo reale. Prima un gioco di contrappunti e di figure imitative, poi sempre più un vero e proprio Concerto per viola e orchestra sull’esempio del periodo romantico e moderno, questa Partita I. I suoni sintetici sono suoni di viola prodotti da un computer che riceve irradia e trasforma. Per derivazione dalle melodie e armonie (veramente un lavoro per coro di Manoury si chiama Inharmonie…) della viola, che viene suonata in acustico. Derivazione che sfrutta non solo il semplice fenomeno fonico dell’emissione ma tanti altri fenomeni che diventano costitutivi, che lo sono sempre nell’interpretazione di un’opera da parte di uno strumentista, cioè la pressione, la diteggiatura, la scelta di una maggiore o minore velocità .
Nelle prime delle nove sezioni, senza stacco, in cui è organizzata l’opera, una suite «non dichiarata», in tempo unico, e qui sta una forte differenza rispetto alla Partita di Bach che prevede la canonica successione di movimenti, che sono poi, in origine, tipi di danze, in queste prime sezioni abbiamo il procedimento di «raddoppi» e «fugati» per quanto riguarda il polo sonoro dell’elettronica rispetto al polo sonoro della viola. Più avanti abbiamo sfondi di ampia consistenza plastica. Infine abbiamo una compagine sonora, un’«orchestra» d’archi, anzi di viole (un’«orchestra» elettronica), che avvolge le parti della viola solista in un crescendo di drammaticità  e di atmosfere persino stregonesche. Questa è certamente l’idea affascinante del lavoro: i due poli sonori, strumento solista e assieme di suoni sintetici, si raffrontano, prima a distanza poi sempre più avvinti uno all’altro, sul terreno di una uniformità  timbrica di partenza. Ma il fattore timbrico si fa via via differenziato per varietà  di sviluppi, sempre in questo universo violistico diviso in due: uno «naturale» e uno no, uno fatto della «natura» della costruzione meccanica (chissà  perché i suoni degli strumenti acustici sono definiti «naturali») e l’altro della «seconda natura» digitale.
Un pochino penitenziale, Philippe Manoury. I momenti conclusivi del suo lavoro fanno venire alla mente un bisogno di grande Concerto, metti Beethoven o Ciakovsky o Bartà³k. Però la messa in scena avviene dentro una dottrina maturata nel dopo-serialismo con una crescente propensione alla severità . Sono passati Stockhausen e l’Ircam nella sua formazione, di sicuro non ha fatto capolino un John Cage. Si esalta nella concitazione e nel virtuosismo della viola di uno splendido Desjardins (che ha molto di scritto e molto di libero nel suo itinerario solistico), evoca la drammatica architettura di Bach ma nella partita di Partite non si stacca mai dal dispositivo accademico.


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