Le mucche della pace dal Trentino a Srebrenica

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Le fiabe hanno sempre una morale, che bisogna cercare. Ma quando la fiaba è una “storia vera” l’insegnamento si fa fulminante, come una piccola rivelazione. È sufficiente vedere il film La transumanza della pace, il racconto del viaggio fatto da 48 vacche di razza Rendena, partite dalle loro stalle trentine per arrivare a Sucéska, sparuta comunità  montana nella municipalità  di Srebrenica, in Bosnia. Vent’anni fa qui stava per iniziare l’assedio che portò al genocidio più grave d’Europa dai tempi della seconda guerra mondiale. Morirono in più di 10.000: per lo più uomini, fra indicibili efferatezze che coinvolsero tutta la popolazione. Arrivarono i carri armati e le “tigri” di Arkan, piegarono un popolo con l’intenzione di cancellarlo. Sucéska fu rasa al suolo, chi sopravvisse scappò per poi tornarvi con tanto coraggio soltanto nel 2000. Case bruciate, riempite di copertoni e “accese” con bombe a mano, che oggi in parte sono state rimesse in piedi e stanno lì, senza intonaco, a punteggiare il paesaggio di un altipiano che sembra fuori dal tempo. In queste case ogni famiglia ha una parete con i ritratti dei suoi morti: sono tantissimi. A tornare sono stati donne, anziani, giovani che allora erano infanti. Qui, per odio bieco, sono completamente saltate una o due generazioni: ripartire è tremendamente difficile. Tanto più se si è in un posto in cui la montagna rende arduo fare agricoltura, dove l’equilibrio fra pascoli, bosco e attività  umane si guadagna soltanto con il tempo e con il saper fare. E quando saltano generazioni, salta anche la trasmissione del sapere.
Salta tutto. È ciò che si è trovato davanti Gianni Rigoni Stern, il figlio di Mario, che come ama dire si è ammalato di “bosnite” a causa di Roberta Biagiarelli, l’autrice del film, nonché la prima animatrice di questa fiaba che ha come parole chiave pace, agricoltura, comunità . L’essere «tutti compaesani», per dirla con il papà  di Gianni. 
La storia inizia con Roberta, che fa teatro e lo fa come luogo in cui le tematiche socio-politiche diventano la sua vita. Da oltre dieci anni Roberta frequenta Srebrenica, si adopera per quella zona dei Balcani così martoriata, e ne sono scaturiti un monologo teatrale, “A come Srebrenica” (1998), e un documentario, “Souvenir Srebrenica” (2006). Nel 2009 Roberta conosce Gianni da amici e gli domanda se ha voglia di insegnare alle donne di Srebrenica a potare gli alberi. Gianni è in pensione, per trent’anni è stato il Direttore della comunità  montana dei sette comuni sull’altipiano di Asiago, è un uomo di montagna, sa fare agricoltura e cultura agricola. Accetta e al primo viaggio, nel 2009, gli viene la “bosnite”. Rimane colpito dall’altipiano su cui è adagiato il piccolo villaggio di Sucéska: sembra quello di Asiago, immagina che fosse ridotto così anche il suo, dopo la prima guerra mondiale. I segni della devastazione sono ancora evidenti nelle case e stalle distrutte, diroccate o ricostruite in estrema economia, ma da esperto Gianni vede subito i segni di un’altra devastazione: quella della fragile agricoltura montana. Non ci sono più animali, i pascoli sono abbandonati, stanno cedendo il passo al bosco, ancor più a felci infestanti e velenose per le vacche. Le zone montane tornano selvagge, e a Sucéska gli abitanti non sanno più nemmeno come fare: non ci sono animali, ma non ci sono nemmeno i padri per insegnare ai figli ciò che hanno imparato dai nonni.
Nasce l’idea di donare delle vacche a queste famiglie, ma Gianni sa che ci vogliono gli animali adatti, che bisogna falciare le erbe cattive, che bisogna rendere le stalle luoghi igienicamente consoni. Che è necessario riportare la conoscenza tra gli abitanti di Sucéska. Allora s’inventa un corso: si sposta almeno una volta al mese, macinando chilometri con il fuoristrada comprato con la liquidazione, viene adottato e adotta le famiglie locali. S’instaura un rapporto di amicizia, di fiducia, Gianni visita ogni casa, ogni stalla. Diventa molto difficile scegliere a chi verranno assegnate le 48 vacche che, dopo una lunga ricerca, sono state messe a disposizione dalla Provincia Autonoma di Trento. Mentre Gianni con Roberta si occupa anche di tutta la complessa trafila burocratica per esportare fuori dall’UE degli animali, il corso che mette in piedi diventa il prerequisito fondamentale: solo chi avrà  partecipato a tutte le lezioni potrà  avere una vacca. Per questo ci sono stati contadini che si sono fatti regolarmente decine di chilometri a piedi. Lì s’insegna di nuovo come fare agricoltura di montagna, si gettano le basi perché le mucche non rimangano abbandonate a se stesse, vengano curate, si riproducano e restino nelle loro nuove famiglie per almeno cinque anni prima di essere macellate o vendute. Sembrano banalità , ma sono i fondamenti di una ricostruzione totale: ambiente, animali, edifici, persone.
Nel film di Roberta è toccante vedere l’amore da cui partono le manze e manzette e l’amore in cui arrivano. I proprietari della Val Rendena fanno fatica a separarsi da queste mucche rustiche, perfette per la montagna; c’è chi piange al momento di salutarle. Ma dall’altra parte a Sucéska, dopo un lungo viaggio, c’è chi le accoglie con meraviglia, commozione e gratitudine. Sono di nuovo a casa, in un certo senso. Nel film siamo a Natale del 2010, e la storia si è ripetuta quest’anno, Natale 2011: altre 31 vacche, altro viaggio, altro finanziamento della Provincia di Trento, altri passaggi di conoscenza e nuovi rapporti umani che si dipanano. Il film è stato portato in giro, ha fatto conoscere questa vicenda e risvegliato la voglia di contribuire. Perché ci insegna che quando perdiamo di vista le cose minime, come le connessioni con i territori dove abitiamo, allora veniamo stroncati nella nostra possibilità  di esistere. Non è un “avere” che Gianni e Roberta hanno riportato a Sucéska: è un “essere”. Un essere persone, un essere comunità . Ed è significativo che tutto ciò sia passato attraverso antichi saperi agricoli: con lo scambio, determinante per formare identità , attraverso la necessariamente lenta e minuziosa ricostruzione di un sistema di pascoli, ecosistema essenziale per ogni zona montana abitata. 
È una fiaba con tante morali, che però non ha un “lieto fine”. Perché se è vero che di lieto in questa vicenda c’è tanto, non c’è nessuna volontà  di porre una fine. Gianni e Roberta, e tutti quelli che li hanno aiutati, sono anche riusciti a raccogliere i soldi per comprare due trattori. Uno studio di avvocati trevigiani ne ha garantito uno devolvendo tutto il denaro stanziato per i regali di Natale. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, nel ventennale dell’assedio a Srebrenica, lì sbarcheranno dei trattori al posto dei carri armati. 
Il nuovo sogno, adesso, è quello di riuscire a costruire un caseificio: per trasformare in loco il latte e non doverlo vendere lontano. Sarà  un altro passo determinante, conseguente, senza fretta. Gianni e Roberta cercano amici per fare il sogno insieme (andate su www.babelia.org), e qui ne hanno trovato uno: vogliamo aiutarli con Slow Food, e che questa fiaba si conosca ancora di più. Non c’è niente di più bello che sognare insieme, perché non possiamo sapere dove ci condurranno i nostri sogni, ma possiamo immaginare abbastanza chiaramente dove saremmo senza di essi.


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