La Serbia solo «candidata» all’adesione. A caro prezzo

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«I Paesi dell’Ue – ha detto – hanno deciso di concedere alla Serbia lo status di candidato». Il premier «tecnico» italiano Mario Monti ha commentato «con piacere», annunciando che l’8 marzo sarà  a Belgrado «con diversi ministri». La Serbia dunque intravvede l’Unione europea, dopo anni e anni di attesa, di diktat, di privazioni in anticipo di sovranità . Inoltre fino all’ultimo la concessione dello status è stata in discussione. La Romania – che pure non riconosce l’indipenza del Kosovo – ha chiesto garanzie per la minoranza dei valacchi (30 mila persone) che vivono in Serbia. Dopo due giorni di trattative anche il presidente rumeno Traian Basescu ha detto sì. 
Il «merito» va al presidente serbo Boris Tadic che, eletto come presidente effettivo della Serbia nel 2006, ha sempre puntato all’Ue, insistendo sulla sua promessa: «L’Europa, con il Kosovo». Va ricordato che sotto la sua presidenza la Serbia ha potuto vantare di avere consegnato al Tribunale penale dell’Aja per i crimini commessi nella ex Jugoslavia i super-ricercati Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Riuscendo al fotofinish a «normalizzare» le relazioni con Pristina, capitale di uno «stato» (grande quanto il Molise e nato dai bombardamenti «umanitari» dell’Alleanza atlantica del 1999). E che unilateralmente ha proclamato la propria indipendenza nel 2008, sostenuto dagli Stati uniti e contro il diritto internazionale (anche se la Corte dell’Aja nel 2010, con parere però solo consultivo, ha detto che «il diritto è salvaguardato»), soprattutto contro la Risoluzione 1244 dell’Onu che assumeva il trattato di pace di Kumanovo che nel giugno 1999 poneva fine alla guerra garantendo l’ingresso delle truppe Nato in Kosovo ma riconoscendo altresi la sovranità  di Belgrado sulla regione. Da lì è nata la legittimità  della missione Unmik e dell’occupazione temporanea – sei anni – della Kfor-Nato. Sono stati invece dieci anni feroci nei quali, sotto gli occhi di Nato e Onu, si è scatenato il terrore contro la minoranza serba e rom fuggita in massa, con migliaia di desaparesidos, centinaia di uccisioni, ben 150 monasteri e chiese ortodosse rase al suolo o incendiate. Un’indipendenza che divide la comunità  internazionale: il Consiglio di sicurezza dell’Onu non l’ha mai riconosciuta, Russia e Cina sono contrarie, divisa è anche l’Ue: Spagna, Grecia, Romania e Cipro nord non la riconoscono. Nonostante questo nel 2011 l’Ue ha inviato la missione Eulex per implementare le strutture dello «stato» del Kosovo. A fine 2011 e all’inizio del 2012 i serbi del Kosovo hanno inscenato proteste di massa, con centinaia di barricate e indicendo un referendum vinto al 99,80%. Con l’obiettivo di impedire la costruzione di una frontiera tra Kosovo e Serbia,per fermare l’invenzione di nuovi confini istituzionali per uno Stato che la Serbia non riconosce, anche perché sottrae il suo territorio. Esattamente l’intento contrario di Pristina, della Nato e dell’Eulex, che hanno schierato migliaia di militari e agenti, con scontri, morti, feriti e arresti.
Da gennaio si è resa sempre più evidente la volontà  dell’Ue e in particolare della Germania, per la quale si è pronunciata la stessa Angela Merkel, di porre come condizione alla Serbia per avere lo status di candidato, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Una condizione inaccettabile anche per la compagine filo-europea guidata da Boris Tadic che ha fatto inserire nella nuova Costituzione serba la frase che il Kosovo, terra fondativa della storia e della religione dei serbi, «è irrinunciabile». Un ricatto così devastante da essere giudicato «inopportuno» perfino dal neo ministro degli esteri italiano Giulio Terzi. 
Venerdì scorso la «svolta». Il dialogo Pristina-Belgrado, sotto egida Ue, si è concluso con un accordo sulla gestione integrata dei «confini» del Kosovo del nord e con il riconoscimento del diritto dell’ex provincia di partecipare ai Forum regionali, ma solo con la scritta «Kosovo» con un asterisco che rimanda ad una postilla che richiama sia la Risoluzione 1244 dell’Onu sia al parere della Corte dell’Aia. La Germania ha subito fatto cadere i suoi ricatti. Non c’è «nessun riconoscimento» ha ribadito Tadic, insistendo sul fatto che lui «non riconoscerà  mai l’indipendenza di Pristina». Ma è una sospensione di giudizio. Pericolosa per uno stato sovrano che, per entrare nella Ue che nella crisi, appare come mensa dei poveri, rischia di privarsi del 15% del proprio territorio fondativo. Rischiosa dunque verso l’opinione pubblica serba. Lo dicono i sondaggi di queste ore in vista delle elezioni politiche di fine aprile a Belgrado: l’opposizione nazionalista-conservatrice del Partito del progresso serbo è al 31% contro il 27% del Partito democratico di Tadic.


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