Il pentito del Nord e i politici collusi Così la ‘ndrangheta contagia l’Italia

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Ci sono tante storie che possono raccontare come la ‘ndrangheta sia un fenomeno non più solo calabrese, ma nazionale e oltre. Un virus che non conosce confini e crea dipendenza, secondo la descrizione di un pentito: «È come la droga per un drogato, ti entra nella pelle. Acquisisci la sua mentalità , la sua durezza, la sua cattiveria. Vorresti sempre di più, diventi sempre più spietato». 
Parole che valgono molto, perché quel pentito è nato in Lombardia da genitori arrivati dalla punta dello stivale. E tratteggiano lucidamente la sete di ricchezza e potere che muove gli affiliati e l’intera organizzazione. Non a caso quella del collaboratore di giustizia Antonino Belnome è una delle prime storie narrate da Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino — il primo neoprocuratore di Roma dopo quattro anni alla guida della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il secondo procuratore aggiunto di Reggio, entrambi con una lunga esperienza palermitana alle spalle — nel libro che hanno appena pubblicato. Significativamente intitolato Il contagio e curato dal giornalista Gaetano Savatteri. 
È un dialogo nel quale i due magistrati illustrano le nuove forme assunte dalla ‘ndrangheta, così come le loro inchieste le hanno svelate: dalla struttura unitaria e verticistica dell’organizzazione alle collusioni con la «zona grigia» in cui si annida la cosiddetta «borghesia mafiosa». 
Una formula utile a definire il modo in cui «professionisti, imprenditori, pubblici amministratori e rappresentanti delle istituzioni sono assieme ai capimafia al comando di un blocco sociale, cioè di un sistema relazionale esteso anche gli strati popolari», spiega Prestipino. Il quale subito dopo precisa: «Noi non siamo sociologi né analisti politici, ma le nostre indagini fanno emergere esattamente questa complessità ». 
Tra i vari settori in cui si consuma la contaminazione il principale è l’economia, dove si movimenta e si accumula il denaro, fonte principale del potere: «Nelle faccende di mafia dietro gli affari economici c’è sempre il problema dei rapporti di potere; più potere più denaro, più denaro più potere», dice Pignatone per illustrare la spirale che determina l’espansione e fa guadagnare prestigio, oltre che soldi. Ancora una volta sono le piccole storie a smascherare i grandi meccanismi; come quella degli appalti per il movimento terra in Lombardia, decisi in una riunione tenuta a San Luca, piccolo comune alle pendici dell’Aspromonte, dal boss Antonio Pelle dopo una riunione con due ‘ndranghetisti arrivati appositamente dal Nord. 
Il controllo sulle attività  imprenditoriali è un modo per gestire, in Calabria e altrove, il mercato del lavoro. Cioè una delle leve del consenso sociale. E dunque, ancora una volta, del potere: «Chi ha il lavoro ha il potere, se non hai lavoro non hai potere», riassumono i familiari di un detenuto intercettati. Tradotto significa applicare le regole mafiose in luogo della libera concorrenza, per gestire e rafforzare il comando. Com’è accaduto quando un consorzio di ditte arrivate da fuori vinse l’appalto per un tratto della statale Reggio-Taranto, e fu costretto a ripartire i sub-appalti tra le aziende facenti capo a due cosche locali. 
Ciò è possibile anche grazie ai rapporti (leggi collusioni e protezione reciproca) con la classe politica, che in Calabria sono più diretti che in Sicilia. Quasi sfacciati, al punto che candidati ed eletti, spesso, sono espressione diretta dei clan. I quali hanno imparato a far crescere al proprio interno, con le nuove generazioni, personale istruito con accesso immediato alla «zona grigia» dove si coltivano le relazioni. Più mediati e nascosti — ma non sempre, talvolta anche quelli avvengono quasi alla luce del sole — sono invece i contatti con esponenti delle forze di polizia, degli apparati di sicurezza, della magistratura.
Tutto questo, rapporti con informatori dei servizi segreti compresi, è emerso in quattro anni di inchieste condotte dal procuratore Pignatone, dall’aggiunto Prestipino e da una schiera di giovani magistrati che hanno lavorato e continuano a lavorare a Reggio Calabria. Con un metodo che consiste nel puntare più all’associazione mafiosa responsabile del traffico di droga che sulla singola partita, anche ingente, da sequestrare. In passato, spiegano i due magistrati, si faceva largo uso di confidenti che restano ‘ndranghetisti e orientano le indagini in base ai propri obiettivi, magari facendo trovare un carico di armi o arrestare un latitante. Meglio invece cercare i pentiti che rompono con l’organizzazione, le cui dichiarazioni vanno comunque riscontrate; è meglio catturare un ricercato scavando nei rapporti interni alle cosche piuttosto che attraverso una soffiata. 
Così s’indebolisce la struttura criminale dal lato giudiziario, e si contribuisce a contrastarla anche sul piano culturale. Con il Sud che diventa esempio per il Nord. Perché se a Como, non a Corleone o nella Locride, qualcuno ha danneggiato la targa in memoria di Falcone e Borsellino, a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, la figlia diciassettenne di un boss ergastolano ha scritto in un tema scolastico: «Ho conosciuto la legalità  tramite le conseguenze dell’illegalità . Dalla storia di papà  ho capito che quando si sbaglia o si frequentano brutte compagnie, redimersi e immettersi sulla giusta via è una cosa che deve essere fatta prima che sia troppo tardi, prima che tutto sia perduto».


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