Dietro la rivolta, al Qaeda

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E il ministro per le questioni strategiche, Dan Meridor, descrivendo la «pericolosità » dell’asse composto da Iran, Siria e Hezbollah libanesi, ha lasciato capire che la caduta di Assad farebbe gli interessi di Israele. Un tale augurio però non trova consensi unanimi tra i comandanti militari e dell’intelligence e nei centri di studi strategici, che vedono nella fine del regime siriano l’inevitabile conquista del potere da parte degli islamisti più radicali. Non siamo all’appoggio, più o meno aperto, che l’ex premier Ariel Sharon diede a Bashar Assad nel 2003, quando l’amministrazione Bush, dopo l’invasione dell’Iraq, fu tentata di colpire anche la Siria. Se cade Assad ci ritroveremo al Qaeda alle porte di Israele, spiegò Sharon ai suoi interlocutori americani. Ma anche oggi non sono pochi quelli che in Israele preferirebbero vedere Assad rimanere al suo posto, indebolito ma sempre in carica. 
Parlando ieri all’Università  Bar Ilan, il generale Yair Golan, comandante in capo per la regione settentrionale, ha detto che potrebbe concretizzarsi in tempi relativamente brevi «la possibilità  che gli elementi di al Qaeda che oggi lavorano attivamente contro il regime siriano a un certo punto comincino ad agire anche contro Israele». Golan si è domandato anche in quali mani finiranno le armi chimiche e i missili balistici di cui sono in possesso le forze armate siriane, dopo la caduta del regime. 
Che la Siria sia destinata a vedere la rapida ascesa al potere dei Fratelli musulmani e di formazioni militanti sunnite, lo pensa anche l’esperto Jacques Neriah, che in una analisi pubblicata dal Jerusalem Center for Public Affairs scrive: «Come già  in Egitto, in Siria i Fratelli musulmani sono riusciti ad appropriarsi del la rivolta, fino a costituirne ora la spina dorsale». Negli ultimi mesi, spiega Neriah, in Siria sono scesi in campo i Salafiti e altre piccole organizzazioni islamiche «in una sollevazione orchestrata ed alimentata da al-Qaida». Il principale gruppo di opposizione, il Consiglio nazionale siriano (Cns), secondo l’esperto israeliano sarebbe sul punto di «disintegrarsi» dopo le dimissioni presentate dal suo capo, Buhran Ghalioun, che non è riuscito a prendere il controllo sull’Esercito libero siriano (Els). Il carattere islamico della lotta contro Assad è divenuto più marcato grazie anche all’intervento di mujahedin accorsi da Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Tunisia e da Paesi europei. Un quadro, conclude l’esperto israeliano, molto diverso dalle proteste popolari pacifiche avvenute in Siria della primavera del 2011.
Questo quadro però non inquieta la leadership politica di Israele, che pianifica l’attacco all’Iran e ora desidera un intervento militare della Nato contro la Siria, per spezzare l’alleanza tra i due paesi e di isolare Hezbollah – sebbene un sondaggio presentato alla conferenza annuale dell’Institute for National Security Studies, riveli che il 52% degli israeliani è contrario alla guerra all’Iran e che solo il 18% crede che un Iran dotato di armi atomiche attaccherà  Israele. 
Per il ministro della difesa Barak l’incapacità  (presunta) dei paesi occidentali di risolvere con la diplomazia e le sanzioni la crisi siriana, deve convincere Israele che può «contare solo sulle proprie forze» quando si parla di Iran e che, pertanto, dovrà  colpire Tehran quando lo riterrà  opportuno.


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