Lavoro, alzata di scudi dei partiti Fini: ci sono i tempi. Ipotesi fiducia

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ROMA — Il governo è pronto a mettere la questione di fiducia per approvare la riforma del lavoro prima del vertice europeo del 28 giugno. Dopo l’appello arrivato sabato da Mario Monti («le prossime due settimane sono cruciali») ieri è stato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a dire la sua: «Non ci sono ostacoli né procedurali, né regolamentari. È solo una questione di volontà  politica. È necessario che Pdl e Pd, contrariamente a quanto accaduto fino ad oggi, ne condividano la necessità ». Al momento, però, la condivisione tra i due principali partiti che appoggiano Monti non c’è. Ed è proprio per questo che il governo, secondo fonti di Palazzo Chigi, considera sempre più probabile l’ipotesi della fiducia.
Scontato il sì all’accelerazione del Terzo polo: «Chi rema per l’Italia approverà  quella legge prima del vertice europeo», dice Pier Ferdinando Casini con l’Udc pronto a tenere aperta la Camera anche nel fine settimana. Una disponibilità  di massima arriva dal Pd che però chiede in cambio di risolvere subito la questione degli esodati: «Il governo approvi il decreto legge su questo punto entro la settimana — dice il capogruppo del Pd a Montecitorio Dario Franceschini — e diventerà  possibile approvare la riforma entro il 28 giugno». Uno «scambio» che il governo sembra diposto ad accogliere pur di incassare la contropartita. E infatti sta già  cercando, con molta fatica, le risorse necessarie anche se non sarà  facile chiudere davvero entro la settimana. Il vero scoglio affiora tra i banchi del Pdl: «Non basta un dibattito con due giornalisti — dice il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto — per cambiare l’iter di un disegno di legge. Se Monti aveva così urgenza, avrebbe potuto e dovuto presentare il progetto sotto forma di decreto legge». Parole che ricalcano quelle già  dette dal vicecapogruppo Maurizio Lupi.
Un avvertimento figlio non solo del contenuto della riforma ma anche del clima difficile tra il governo e quel pezzo della sua maggioranza come si è visto anche con le polemiche sul decreto sviluppo. E che in ogni caso rende più difficile l’accelerazione chiesta dal presidente del Consiglio.
Al momento il disegno di legge è all’ordine del giorno dell’Aula della Camera per la prima settimana di luglio. Per chiudere entro il 28 di questo mese servirebbe una decisione della conferenza dei capigruppo che solo venerdì scorso aveva respinto la richiesta di anticipo formalizzata dall’Udc. E, soprattutto, bisognerebbe approvare il testo così com’è, senza modifiche rispetto a quello uscito dal Senato per evitare un nuovo passaggio a Palazzo Madama impossibile in tempi così stretti. E questo è un altro scoglio sulla rotta dell’accelerazione.
Sia il Pd che il Pdl preferirebbero cambiare la riforma in più punti. I Democratici vorrebbero correggere il capitolo degli ammortizzatori sociali: «Bisognerebbe far partire le nuove regole — spiega il relatore Cesare Damiano — nel momento in cui si esce dalla crisi, altrimenti rischiamo un aumento dei processi di ristrutturazione aziendale che creerebbe situazioni socialmente ingestibili». Il Pdl vorrebbe cambiare il capitolo sulla flessibilità  in entrata e sulle partite Iva anche se il relatore che ha in quota, Giuliano Cazzola, si accontenterebbe di modifiche minori «come la cancellazione dell’intervallo di 90 giorni tra un contratto e l’altro che, nel settore del turismo, impedirebbe di lavorare sia a Pasqua che in estate. Un assurdo». I due relatori si stavano confrontando su una serie di correzioni concordate che adesso rischiano di finire nel cestino.
Oggi pomeriggio la commissione Lavoro della Camera riprende l’esame del ddl con le audizioni, il termine per gli emendamenti è fissato per venerdì, Lega e Italia dei valori ne presenteranno parecchi per ostacolare il percorso di una riforma che hanno sempre criticato. «Il governo dice che bisogna fare in fretta, io penso che sia importante fare bene» dice il presidente della commissione, Silvano Moffa. La sua è una conclusione amara: «Se poi pensano che la Camera non si deve pronunciare che almeno lo dicano chiaramente».


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