Attività  intellettuale il mito che si sgretola

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Del resto troppo spesso nel discorso pubblico italiano si è portati a sopravvalutare l’effetto delle nuove leggi sulle dinamiche reali del mercato del lavoro, si coltiva l’idea che il diritto sia un passepartout. Basta modificare una norma e la società  automaticamente si adatta. Non è così, ciclo giuridico e ciclo sociologico non è detto che coincidano, anzi. I cambiamenti della cultura del lavoro delle famiglie italiane sono lenti e di conseguenza la tempistica dell’adeguamento dei loro comportamenti non è prevedibile. Detto del metodo però è giusto sottolineare come la scelta fatta negli ultimi anni (e ribadita dalla legge Fornero), di puntare sullo strumento dell’apprendistato per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, sia sensata. È troppo presto per operare bilanci ma deve essere chiaro che non possiamo aspettarci miracoli. Gli strumenti legislativi che abbiamo messo in campo vanno accompagnati con altri interventi di carattere culturale, proprio per incidere sulla concezione del lavoro che hanno sia i padri sia i figli e che non è influenzata dal dibattito politico né da quello giuslavoristico.
In Italia veniamo da un lungo periodo in cui il lavoro manuale è stato schivato, messo da parte, considerato utile tutt’al più per impiegare/stabilizzare i nuovi immigrati. È passata l’idea che rifuggire dalla manualità  equivalesse di per sé a una sorta di mobilità  sociale verso l’alto, che fosse da preferire una laurea qualsiasi a un posto sicuro e ben remunerato nell’agricoltura, nel commercio tradizionale, nell’artigianato. Le famiglie hanno generosamente finanziato quest’illusione e per paradosso stiamo assistendo ancora oggi ad esercizi commerciali e piccole imprese che chiudono perché la staffetta generazionale si rivela impossibile. Avviene in Brianza non a Roma ed è tutto dire. I figli rifiutano il lavoro dei loro genitori considerandolo eccessivamente duro e soprattutto socialmente non gratificato. La crisi però sta spazzando quest’illusione e il rapporto del Cnel racconta come dalla fine del 2011 il tasso di disoccupazione sia aumentato anche perché si è ingrossato il numero di coloro che cercano lavoro. Le famiglie oggi possono essere paragonate a degli ascensori sovraccarichi, non ce la fanno più a portare tutti ai piani superiori e qualcuno a questo punto deve scendere e salire a piedi. Fuor di metafora deve mettersi a cercare un posto di lavoro senza tutte le pregiudiziali di qualche anno fa.
Se queste sono le dinamiche in corso l’operazione che dobbiamo fare è quella di accompagnare il rilancio del lavoro manuale con il mutamento della sua immagine. Qualcosa sta camminando con varie iniziative sul territorio e con il protagonismo dei soggetti più diversi. Dalla Fondazione Cologni che organizza in Lombardia e Lazio tirocini formativi per giovani nei mestieri d’arte al progetto «Botteghe di mestiere» lanciato da Italia Lavoro, dalla rete creata nel Nordest da Stefano Micelli con la parola d’ordine del «futuro artigiano» al movimento dei giovani makers che stanno dando nuova linfa generazionale non solo alla piccola manifattura ma anche al terzo settore. Sono tutte iniziative che vanno incoraggiate e sostenute perché il cambiamento alla fin fine si costruisce così.


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