Total: l’Artico è «troppo rischioso»

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E’ la prima volta in assoluto che un dirigente di una compagnia petrolifera si dice contrario a cercare greggio nell’Artico – proprio mentre tutte le sue concorrenti su stanno buttando nella corsa ai tesori nascosti del Polo nord.
Christophe de Margerie dice che il rischio di dispersioni di petrolio in una zona così delicata dal punto di vista ecologico sono semplicemente troppo alti: «Una chiazza nera sulla Groenlandia sarebbe un disastro», e anche «un danno troppo grande all’immagine della compagnia». Non che il capo di Total sia contrario per principio alle esplorazioni nell’Artico: la sua compagnia infatti è partner di alcuni progetti per la ricerca di gas naturale nella parte russa, sia su terra che off-shore, inclusa una partecipazione nel giacimento di Shtokman nel mare di Barents. Nel caso del gas però, dice Margerie, far fronte a eventuali fughe è molto più facile che riparare al danno di maree nere di petrolio.
E ora è proprio il petrolio che fa gola. Secondo uno studio del 2998 del Geological Survey degli Stati uniti, l’Artico contiene oltre un quinto del petrolio e del gas naturale raggiungibili ancora non scoperte, e l’ossessione di tutte le compagnie petrolifere mondiali è riuscire a estrarle: cosa che sembra diventare possibile «grazie» (o «a causa») del riscaldamento globale del clima, poiché le acque dell’oceano Artico si stanno scaldando e il ghiaccio recede, lasciando libere zone di mare sempre più ampie libere per periodi sempre più lunghi ogni estate (è di pochi giorni fa la notizia che lo scioglimento del ghiaccio sul Polo nord quest’estate ha segnato un nuovo record). Così vaste risorse minerarie diventano accessibili (o per lo meno più accessibili di prima: perché quelle acque gelide piene di iceberg alla deriva sono tutt’altro che sicure…). Il petrolio è la prima, enumerose compagnie petrolifere si sono buttate: ExxonMobil, l’italiana Eni, la norvegese Statoil hanno firmato accordi con la Russia per esplorare i fondali dell’Artico dalla sua parte. Ma la più avanzata in questa corsa al momento è l’anglo-olandese Royal Duch Shell, che ha ottenuto autorizzazioni preliminari a compiere perforazioni esplorative al largo dell’Alaska.
Eppure Shell Oil ha subito una battuta d’arresto notevole nelle sue operazioni nell’Artico, e proprio per una questione di sicurezza. Dieci giorni fa infatti ha deciso di sospendere la perforazione di un pozzo esplorativo nella baia di Chukchi, dopo che durante un test di sicurezza non aveva funzionato la «bolla di contenimento» della Arctic Challange, la chiatta attrezzata per intervenire a contenere il greggio disperso in caso guasti e incidenti (uno dei requisiti di sicurezza imposti dalle autorità  Usa alle compagnie petrolifere per operare nelle acque polari). La Arctic Challange non ha dunque ottenuto la certificazione necessaria, e Shell ha deciso di sospendere le operazioni per fare le riparazioni necessarie in modo di arrivare pronta e «rafforzata» al 2013 (dopo la sospensione invernale, inevitabile causa ghiaccio).
Negli ultimi sette anni Shell ha messo grandi energie e quasi 5 miliardi di dollari nel suo programma Artico, e certo non vuole tirarsi indietro: dice che userà  il resto della stagione per per scavate i buchi preliminari (top holes) che poi ricoprirà  in attesa dei permessi definitivi: tre nel Chukchi e due nel mare di Beaufort, per cui ha avuto la prima autorizzazione pochi giorni fa e intende procedere appena gli Inuit avranno terminato la loro stagione di caccia alla balena.
Shell Oil non ha commentato le parole del concorrente francese.


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