Clima, accordo al ribasso sì alla seconda fase di Kyoto ma senza i grandi inquinatori

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DOHA – Ci sono voluti i tempi supplementari, altre 24 ore di trattativa dopo la chiusura prevista dei lavori, per arrivare a una situazione di stallo: la trattativa sul clima non affonda ma si limita a indicare la strada da percorrere senza fare passi in avanti. I delegati di 190 paesi che per due settimane hanno discusso la strategia per fermare i gas serra hanno firmato il Doha Climate Gateway che contiene un accordo molto debole su due punti.
Il primo è il «Kyoto 2», la seconda fase del protocollo sottoscritto nel 1997 dai paesi industrializzati. L’intesa annunciava una svolta storica: un impegno collettivo a fermare l’emissione dei gas serra che minacciano di moltiplicare uragani, siccità  e alluvioni facendo crescere in modo drammatico la temperatura del pianeta. Ma all’indomani di quel patto gli Stati Uniti, con l’elezione di Bush, fecero marcia indietro. Adesso si sono sfilati anche Canada, Russia e Nuova Zelanda. Restano Unione europea, Australia, Norvegia e Svizzera: tutti assieme sono responsabili del 15 per cento del totale delle emissioni serra. E decideranno la misura dei tagli per il periodo 2013 – 2020 solo il prossimo anno.
L’attenzione si sposta quindi sul secondo punto dell’accordo di Doha: la road map per arrivare entro il 2015 a un’intesa mondiale che entrerà  in vigore dal 2020. A far salire le emissioni globali sono stati infatti negli ultimi anni i paesi di nuova industrializzazione che, mentre l’Europa tagliava i gas serra, pagavano l’impennata del Pil con un aumento rapido delle emissioni di CO2. Anche su questo punto però non si sono fatti passi avanti sostanziali.
«Abbiamo superato il passaggio e speriamo ora di aumentare la velocità », ha commentato il commissario al Clima Connie Hedegaard. Ma per Kieren Keke, rappresentante dell’Alleanza delle piccole isole che rischiano di essere sommerse dalla risalita dei mari, «dobbiamo fare molto, molto di più».
Anche il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ammette che «il bicchiere di Doha è per tre quarti vuoti e per un quarto pieno, ha molto pesato la crisi economica globale». Per il Wwf si tratta di «un accordo vergognosamente debole». Per la Legambiente «la strada ora è in salita». Per il Climate Action Network non è stato messo a punto un meccanismo credibile per arrivare allo stanziamento dei 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 necessario ad aiutare i paesi più poveri nel salto tecnologico verso un sistema a basso impatto ambientale.
La questione economica, su cui la crisi ha pesato, è stata l’altro punto debole della conferenza in Qatar. I Paesi europei hanno dato un contributo mettendo sul piatto 8 miliardi di euro, ma l’obiettivo dei 100 miliardi all’anno indicato lo scorso anno alla conferenza di Durban appare lontano.
Così come lontano resta l’obiettivo di stabilizzazione dell’atmosfera indicato con precisione dai climatologi delle Nazioni Unite. Secondo il rapporto Unep (il Programma ambiente dell’Onu), per mantenere il riscaldamento sotto i 2 gradi le emissioni dei vari gas serra (misurati in termini di equivalenza all’anidride carbonica) devono scendere a 44 miliardi di tonnellate entro il 2020: oggi siamo già  a circa 50 miliardi e senza interventi nel 2020 arriveremmo a 58 miliardi. Le riduzioni annunciate valgono appena 1 miliardo di tonnellate.
Infine, a completare l’elenco delle carenze, ci sono i controlli. Il protocollo di Kyoto prevedeva sanzioni contro gli inadempienti. Questa procedura, norma corrente per regolare le dispute commerciali con il Wto, non è passata per il clima: dagli Stati Uniti alla Cina è prevalsa la linea degli impegni che ogni Stato deve inserire volontariamente. Ma se la somma di questi impegni è oltre dieci volte inferiore al necessario vuol dire che nel meccanismo qualcosa non torna.


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