TRA PAUSE E PAURE

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Anche se è rimasto solo, in compagnia della Francia, che si illude di poter restare una potenza. Una mossa dettata dalla frustrazione, che può avere conseguenze imprevedibili.
La scelta di aspettare il ritorno del Congresso e chiedergli un pronunciamento serve a prendere tempo e a guadagnare un consenso all’intervento che finora manca del tutto.
Intendiamoci. Il regime di Assad è, proprio come l’Iraq di Saddam Hussein, una feroce autocrazia famigliare che ha perso da molto tempo qualsiasi parvenza di «socialismo». Ma, se all’inizio della rivolta, a ribellarsi era la maggioranza sunnita della popolazione, ora a combattere contro il regime sono bande armate di qualsiasi provenienza (soprattutto religiosa), spezzoni del vecchio esercito passati con gli oppositori, organizzazioni islamiche estremiste, volontari provenienti da altri paesi, mercenari, milizie infiltrate dai paesi confinanti e, probabilmente, istruttori occidentali.
Quella in corso, dunque, non è una «lotta di liberazione» ma un conflitto strategico a cui partecipano l’Arabia saudita, la Turchia, l’Iran e così via. A farne le spese, naturalmente, la popolazione siriana, massacrata da oltre due anni di guerra civile con decine di migliaia di morti e un milione di profughi. La cui posta in gioco è la lotta per il controllo di un’area chiave del pianeta, una lotta in cui si contrappongono direttamente sunniti e sciiti, sunniti e sunniti, filo-iraniani e filo-sauditi e così via, ma in cui si scontrano anche Israele e Iran, Usa e Iran, Usa e Russia. In passato, guerre regionali sono scoppiate e divenute planetarie per molto meno.
Chi finirà per controllare la Siria – siano l’Iran, la Turchia o altri – conseguirà un enorme vantaggio strategico in una situazione in cui si sovrappongono diverse linee di frattura, religiose, geopolitiche ed economiche. Ma può anche essere che, data la relativa debolezza o forza non schiacciante dei contendenti, il conflitto si configuri come una sorta di guerra permanente tra le potenze.
Dunque, un enorme focolaio di crisi che potrebbe far impallidire i ricordi non solo dei conflitti del Golfo e dell’Afghanistan, ma persino del Vietnam. Non dubitiamo che Obama ne sia consapevole. Ma dopo tutti gli errori commessi e le frustrazioni subite in questi anni (il fallimento delle primavere arabe, il colpo di stato in Egitto, la morte dell’ambasciatore in Libia, il congelarsi dei rapporti con la Russia), il presidente americano si trova davanti a un dilemma.
Il dilemma di non agire, e quindi subire un tremendo scacco politico; oppure agire «in modo limitato» e infilarsi in un conflitto che esporrebbe gli Usa, e non solo loro, a una spirale bellica incontrollabile.
Si può evitare tutto questo? Forse, ma a diverse condizioni. Smetterla con la retorica della guerra «umanitaria», che oggi costringe gli Usa a «fare qualcosa» per non perdere la faccia. Rivedere completamente la strategia aggressiva di Bush, che ha portato a tutto questo. Ammettere che nel mondo ci sono altri attori decisivi (Russia e Cina) e quindi sedersi a un tavolo con loro di fronte a crisi come quella siriana. Insomma, riconoscere che, per quanto potenti, gli Usa non sono più i «padroni del mondo», come si erano illusi dopo l’89.
E l’Europa? Il voto inglese, proprio come il bellicismo tutto apparente di Hollande, dimostra quanto sia risibile il ruolo strategico di un continente diviso, titubante e percorso da nuove e anacronistiche pulsioni nazionali e coloniali.
Qualche cancelleria europea si era illusa, dopo la Libia, che intervenire nei conflitti nell’Africa del nord, e magari del mondo musulmano, fosse una passeggiata. Oggi, c’è da sperare non solo che gli Usa escano dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. Ma che Russia, Iran, Cina e altri ex appartenenti all’«impero del male» non perdano la testa.


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