Fischi a Letta e Barroso Il premier: vergogna per i superstiti indagati

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LAMPEDUSA — I bambini, forse, cambieranno la ragion politica. Nell’hangar della morte le bare bianche continuano ad aumentare. E raramente capita d’assistere a una conferenza di governanti europei tanto intrisa di emotività. Così ha un groppo in gola José Manuel Barroso, quando racconta a taccuini e telecamere, «ho visto neonati, ho visto madri… non posso dimenticare», e gli si spezza perfino l’inappuntabile inglese diplomatico. Un ragazzino eritreo di forse 12 anni gli si para davanti, facendosi largo tra i superstiti del naufragio, e gli dice: «Qui non ho nessuno, ma non potevo più vivere nel mio Paese». Il presidente della Commissione europea è ancora turbato quando annuncia fondi per 30 milioni dall’Unione, i primi interventi: «Io tutte quelle bare non me le toglierò dalla mente!».
Sicché i bambini e le loro famiglie, le storie degli ultimi del mondo sprofondati nel gorgo di Lampedusa, forse per la prima volta trovano voce, a tratti come un flusso inarrestabile, in un’occasione formale, davanti a presidenti, ministri e commissari che stavolta non parlano più di spread e ripresa economica, ma di tende e assistenza in mare. Enrico Letta sbotta secco: «Sì, ho provato un senso di vergogna di fronte a tutto lo zelo con cui sono stati iscritti nel registro degli indagati i sopravvissuti al naufragio», dice, con una dichiarazione non lieve dal punto di vista degli assetti politici nazionali, glissando tuttavia, assieme ad Alfano che gli siede accanto, sulla successiva e inevitabile questione legata alla Bossi-Fini (che appunto rende inevitabile quell’iscrizione). Mentre da Agrigento la Procura replica piccata in tempo reale («non zelo ma obbligo di legge, non venga a sindacare il lavoro dei pm»), il premier si spinge ancora oltre, annunciando «funerali di Stato» per le vittime (ormai oltre trecento).
È strana questa giornata a Lampedusa, mescola rabbie e attese. Al porto i lampedusani inalberano cartelli avvelenati contro la «politica romana»: «Se è vero che non volete morti in mare, mettete una nave Libia-Roma», «Non ci sentiamo italiani», «Angelino, no premio Nobel: pensa ai diritti dei lampedusani». Una pittoresca compagnia di pescatori e albergatori, commercianti e noleggiatori, schierata tra le barche del porto, chiede in sostanza meno tasse, compensazioni, tutte istanze sacrosante, con un non detto meno commendevole ma abbastanza esplicito: impedite ai migranti di venire qui o, almeno, smettete di parlarne, ché ci si rovina il turismo. Vincenzo Brignone, direttivo di Confindustria siciliana e delegato per l’isola, la inquadra più chiaramente: «Noi siamo schiacciati tra immigrazione e disattenzione dello Stato. Vere misure economiche di supporto non sono mai state adottate, da anni chiediamo la zona franca».
Letta promette le compensazioni, assicura interventi per i minori in consiglio dei ministri. Alfano ringrazia i lampedusani e promette sostegno agli agrigentini (qualcuno mugugna, dato che quello è il suo bacino elettorale, ma sono solo cattivi pensieri). Ma all’arrivo dell’aereo di Stato, su cui premier e vicepremier ospitano, con Barroso, la commissaria Cecilia Malmström, l’accoglienza in aeroporto è feroce: «Assassini, assassini!», urlano i militanti del centro sociale Askavuza, piccola enclave antagonista dell’isola: «Andate a visitare il centro d’accoglienza, ipocriti!». Imbriacola è in condizioni drammatiche, dopo giorni di pioggia: «No, non penso che un Paese civile possa tenere così i migranti», ammetterà il premier, che, spiazzando prefettura e cerimoniale, si impunta per una visita-lampo a sorpresa. «Ho visto molto dolore», dirà poi. Il dolore accompagna questa visita quanto e come le proteste, che confluiscono a metà mattinata davanti al municipio di Lampedusa: antagonisti e categorie produttive singolarmente uniti nella stessa piazza di rabbia dallo stesso slogan: «Vergogna! Vergogna!». Ma quando la rabbia si sgonfia e le promesse si esauriscono, resta il silenzio. E un premier inginocchiato davanti alle bare, nell’hangar della morte.


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