Il poeta di periferia che rinnega l’Islam

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«Yahya Hassan». La sua prima raccolta di poesie porta il nome dell’autore: autoritratto in versi di un diciottenne arrabbiato che scrive solo in stampatello maiuscolo, le lettere come lapidi di cemento sulle menzogne di troppi traditori. Yahya Hassan è il figlio danese di palestinesi finiti dal Libano ad Aarhus, il porto industriale dello Jutland che nel 2011 fu tra i punti nevralgici del dibattito sul multiculturalismo nordico fondato sull’universo parallelo dei ghetti: pace sociale in cambio della totale separazione tra le comunità. La cortina politicamente corretta calata su quel mondo è il bersaglio polemico di Yahya.
«A scuola non possiamo parlare arabo / A casa non possiamo parlare danese»: lo spaesamento delle seconde generazioni e le contraddizioni degli adulti in poesie che spaccano la società, confondono la destra con la sinistra, accusano di parassitismo e ipocrisia il gruppo religiosamente connotato dei musulmani di Danimarca. Trentaduemila copie vendute in due settimane, in un Paese di neanche sei milioni di abitanti dove i libri di poesia superano di rado i cinquecento esemplari. È un fenomeno letterario e sociopolitico questo ragazzo dei ghetti cresciuto in una famiglia difficile e violenta, allontanato da scuola a 13 anni, affidato alla rete del welfare danese come soggetto problematico, diventato rapper e salvato dalla poesia. Una parte della critica lo ha accostato al gigante americano Walt Whitman, al grido di libertà di Foglie d’erba . La sua biografia rende difficile classificarlo come provocatore razzista o figura modello. «Quello che scrivo riguarda solo me».
Lessico quotidiano, immagini ruvide e spiazzanti. Ora che ha trovato il suo linguaggio interiore, Yahya se la prende con la generazione dei padri che «tra le preghiere del venerdì e il Ramadan girano con un coltello in tasca». Con le famiglie di immigrati che vietano ai figli di fare sport insieme ai coetanei «bianchi», alimentando quella cultura della distanza che è la premessa ideologica della discriminazione. Con «gli stupidi che fanno jogging e pregano, poi rubano, bevono e vanno a letto con le ragazze danesi… in prigione si redimono leggendo il Corano e ricominciano da capo».
Ateo, definisce «innocuo» il cristianesimo. «Qualcosa non va nell’Islam — dice —, una religione che rifiuta di rinnovarsi». Destabilizzante in un Paese che ha chiaro il ricordo delle violente proteste esplose nel 2005 in tutto il mondo arabo-musulmano per la pubblicazione delle dodici vignette «blasfeme» del quotidiano Jyllands-Posten : Maometto con il turbante a forma di bomba fu giudicato un inaccettabile oltraggio alla tradizione che bandisce le raffigurazioni del Profeta. Il disegnatore, Kurt Westergaard, vive sotto protezione nella stessa città di Yahya. È sfuggito a più di un tentato omicidio.
Il poeta delle periferie dure è spesso nei salotti tv. Nelle ultime settimane ha ricevuto 27 minacce di morte sulle quali indaga la polizia. «Conosco questa gente, non sopporta le critiche e non vuole il dialogo». I capelli scuri raccolti a coda, felpa nera e giubbotto, ieri era al Bella Center di Copenaghen per la più grande Fiera del libro del Paese. Tra autografi e letture, già una piccola star.
Maria Serena Natale


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