Quel mutuo soccorso della memoria

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le leggi razziali del fascismo e lei, bambina, costretta a lasciare l’Italia con i familiari più stretti, e a raggiungere l’esilio dell’Argentina; la cattura del nonno materno, Ettore Camerino, che si era rifiutato di lasciare Milano e che fu arrestato mentre cercava di fuggire in Svizzera. Rinchiuso nel carcere di Varese e poi a San Vittore, infine deportato ad Auschwitz e gasato poco dopo l’arrivo nel campo di sterminio; il matrimonio di Vera a Buenos Aires, e lo spietato assassinio dell’unica figlia Franca, neppure diciottenne ma fiera oppositrice del regime golpista del generale Videla: desaparecida, torturata e buttata in mare — viva — da uno dei voli della morte.
È logico, anzi è evidente che per una mamma la morte violenta della figlia, poco più che bambina, sia una tragedia immensa, decisamente più grande delle precedenti. Di sicuro più insopportabile del calvario del nonno. Però Vera è una donna colta e profonda, e sa distinguere. Sa che non possono esservi paragoni tra la Shoah, cioè lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei, deciso a tavolino, con spietate tabelle e mostruosa organizzazione, e la brutale e vigliacca eliminazione per ragioni politiche di 30 mila oppositori. Vera non ha esitazioni: «Con l’Olocausto si è voluto annientare un popolo; le squadracce di Videla hanno voluto cancellare una generazione».
La tragedia dei desaparecidos argentini e il coraggio delle madri di piazza de Mayo, che si ritrovano ogni settimana davanti alla Casa Rosada di Buenos Aires per manifestare il loro dolore, invocando i nomi dei loro cari scomparsi come se fossero presenti, stavano rischiando d’essere confinati nei sottoscala della memoria collettiva. Vera, con il suo doloroso viaggio, è come se fosse andata a chiedere soccorso alla tragedia più grande, quella della Shoah, ricordata ogni anno in tutto il mondo, perché la tragedia dei desaparecidos non venga dimenticata. È stata proprio la visione agghiacciante del Binario 21, l’anno scorso alla stazione Centrale di Milano, a ingigantire il suo impegno di vittima e testimone, e a convincere la donna a compiere il suo pellegrinaggio. «Il mio scopo è il viaggio, non la viaggiatrice».
Nei campi di Auschwitz e Birkenau, Vera camminava attonita, continuando a ripetersi un perché che si perdeva nell’aria, e riascoltando la lucida e penetrante testimonianza della sopravvissuta Liliana Segre. A un bambino della scuola da cui fu cacciata perché ebrea, che le chiedeva se perdonerà mai gli assassini di sua figlia e quelli del nonno, ha risposto secca e laconica: «No, almeno fino a quando non vi sarà giustizia. Una giustizia completa». La ricerca di giustizia è la serena bandiera che Vera porta agli studenti, ai giovani, nelle università, nei licei, nelle medie, alle elementari, insomma a tutti coloro che potrebbero essere fuorviati dai sensali dell’ignoranza negazionista.
Questa rocciosa donna, ormai argentina ma sempre orgogliosamente italiana, ha un altro desiderio, rivolto al più celebre dei suoi connazionali, papa Francesco. Dice: «Il nome che ha scelto il pontefice mi conforta; quel che fa è ammirevole. Ora vorrei che in un’enciclica, o in un discorso, dicesse “mai più il silenzio!”. Ecco, credo che a quel punto tutti capiremmo».


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