L’illusione della Grande Bellezza

L’illusione della Grande Bellezza

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Cristina Piccino, il manifesto

Non è ancora l’alba e la poli­tica già twitta. Esulta il pre­mier Mat­teo Renzi, e con lui il neo­mi­ni­stro alla cul­tura Dario Fran­ce­schini. La Grande Bel­lezza ha vinto l’Oscar, l’Italia cine­ma­to­gra­fica torna a essere grande nel mondo, Paolo Sor­ren­tino ha ripor­tato dopo quin­dici anni (l’ultima volta è stato con La vita è bella di Beni­gni) la sta­tuetta pre­sti­giosa sul suolo nazio­nale. La festa era già comin­ciata da giorni ma adesso è tutto vero. Sui social media impaz­zano i com­menti, e se non si par­te­cipa all’entusiasmo col­let­tivo si rischia almeno un’accusa di disfat­ti­smo, peg­gio di sno­bi­smo. Con qual­cuno che arriva per­sino a minac­ciare quei cri­tici che hanno osato espri­mere per­ples­sità. Ma da esul­tare c’è ben poco.
Il film di Sor­ren­tino, lo abbiamo sem­pre detto, non è un grande film, pro­prio come l’Oscar 2014 che ha tagliato fuori per spoc­chia per­be­ni­sta (pre­miare un orrendo truf­fa­tore pure tos­sico giam­mai) dal suo pal­ma­rés il film più grande, quello sì, dell’anno, The Wolf of Wall Street non è da ricor­dare. Sor­ren­tino che rin­gra­zia Mar­tin, il vero scon­fitto, e lo mette tra i suoi modelli di ispi­ra­zione insieme a Mara­dona fa quan­to­meno sor­ri­dere. Della spre­giu­di­ca­tezza da fan­ta­si­sta dell’uno e dell’altro il «suo» Jep Gam­bar­della ha ben poco, immerso nell’istante che rac­conta su esso sci­vola, pon­ti­fica, gode. E per­sino l’amarezza — se mai ce ne è — del dan­di­smo sgar­giante come le sue giac­che appare com­pia­ciuta.
Poco importa però. Stiamo par­lando di Oscar e di Grande spet­ta­colo ( e Bel­lezza). Dell’Italia che piace all’estero, e che con­qui­sta Hol­ly­wood. L’Italia del buon cibo, dei monu­menti anti­chi, mica quella «reale» che non inte­ressa nes­suno. L’Italia della com­me­dia umana, del ber­lu­sco­ni­smo, dell’imbroglio. Delle maz­zette, dei nobili, dei preti e dei car­di­nali. Ma, appunto, anche della «bel­lezza» di chiese e palazzi. Di un caos e di una mera­vi­glia fan­ta­sma­go­rici di cui Roma nel mondo è l’emblema asso­luto. Il nostro Jep inse­gna.
Del resto: non è sem­pre e solo que­sta l’immagine ita­liana da espor­ta­zione? Difatti in pla­tea l’elegante pub­blico degli Oscar è stato immor­ta­lato men­tre addenta una bella fetta di pizza, ita­lia­nis­sima ovvia­mente, con sor­ri­setti godu­riosi — sarà stata di gomma ma che vuoi, così siamo tutti un po’ ita­liani.
Ecco. Sor­ren­tino con la sua Grande bel­lezza ne cele­bra i fasti di quell’Italia lì, met­ten­dosi sotto l’ala pro­tet­tiva di Fel­lini, il genio del made in Italy imma­gi­na­rio per anto­ma­sia, della nostal­gia ras­si­cu­rante di un cinema che è diven­tato mito, e che soprat­tutto non disturba, esat­ta­mente come non distur­ba­vano i baci di Tor­na­tore nel Cinema Para­diso o i sol­dati ita­liani persi nel Medi­ter­ra­neo di Sal­va­to­res — per citare gli altri Oscar ita­liani. Lì era un sen­tore di neo­rea­li­smo, un po’ di car­to­lina, la pro­ie­zione di un desi­de­rio nel quale è impos­si­bile ormai disti­guere il «falso» dal «vero». Che poi Fel­lini lo inven­tasse un mondo, una Roma, una realtà prima con l’immaginario e Sor­ren­tino non inventa nulla sono det­ta­gli secon­dari. Qui e oltreo­ceano.
Nel «Forza Ita­lia», l’Oscar è già diven­tato il toc­ca­sana per ogni malat­tia e distor­sione del cinema ita­liano, pro­du­zione, distri­bu­zione, eser­ci­zio. Per l’asfissia del nostro mer­cato, dove tanti film anche alcuni nella cin­quina del film stra­niero nep­pure arri­vano, dove gli ita­liani appena eccen­trici (non c’è biso­gno di andare lon­tano) in sala non tro­vano spa­zio. Non è così, non sarà così senza una poli­tica cul­tu­rale chiara, e final­mente effi­cente, lo sap­piamo bene. Ma la reto­rica a que­sto serve e all’illusione tutti vogliono cre­derci.
I film di Sor­ren­tino, poi, sono mac­chine per­fette nell’accarezzare il desi­de­rio social di par­te­ci­pa­zione, popo­lari nel senso let­te­rale della parola, per­ché tutti-proprio-tutti, anche i detrat­tori, come dopo un mega match della nazionle, vogliono dire la loro. É una dote, biso­gna dirlo, che va al di là del film in sé, e dichiara la capa­cità di un regi­sta, e del suo lavoro di porsi come un evento: non si parla d’altro. Acca­rez­zando in que­sto caso lo stesso nar­ci­si­smo del vuoto che vor­rebbe cri­ti­care. Che poi que­sto sia «il cinema ita­liano» è da dimo­strare. Non lo è, è chiaro, ma alla logica dell’evento con cui ormai si iden­ti­fica la cul­tura da noi basta. Domani come diceva qual­cuno è un altro giorno, e per ora è meglio cre­dere a una « Grande Bellezza».


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