“Non esiste un caso Italia” la partita di Palazzo Chigi tra Bruxelles e i veti tedeschi

“Non esiste un caso Italia” la partita di Palazzo Chigi tra Bruxelles e i veti tedeschi

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UN INDIZIO dell’atteggiamento della Germania, sempre seguita a ruota da Finlandia e Olanda, ieri lo davano lo Spiegel e la Sueddeutsche Zeitung che all’unisono, pur lodando le qualità di Renzi, parlavano del rischio di un “effetto Obama”, «tante aspettative e risultati scarsi» a causa dei frenatori che stoppano le riforme con le quali il premier vuole far svoltare l’Italia. Un messaggio per far capire che se prima non vedranno le riforme economiche avviate, difficilmente a Berlino molleranno sul rigore. Ecco perché ieri dalla sede del governo italiano facevano filtrare il seguente messaggio: «Nessuna trattativa segreta con l’Europa, non esiste un caso Italia». La partita è ancora più complessa e riguarda tutti i protagonisti della zona euro.
La linea recapitata ai media è che Renzi nonostante i giorni trascorsi in Versilia con la famiglia sia rimasto concentrato sui principali dossier, a partire da quelli economici. L’attenzione è rivolta al mega Consiglio dei ministri del 29 agosto — chiamato ad approvare lo Sblocca Italia, la scuola e la riforma della Giustizia — e sul resto del programma dei Mille
Giorni, le 10 riforme strutturali che dovrebbero fungere da passepartout per ottenere la flessibilità sui conti dall’Unione. La vulgata vuole un Renzi tranquillo, fiducioso sulla tenuta dei conti e sui rapporti con l’Unione. Anche se l’intero governo è consapevole di quanto la partita con Bruxelles sia vitale. «Non abbiamo nessuna trattativa da fare semplicemente perché rispetteremo il 3%», spiegava ancora il premier ai pochi collaboratori che lo hanno raggiunto al telefono nella vacanza toscana. Non esiste un problema Italia, era il succo del ragionamento, ma un problema eurozona che l’Italia aiuterà ad affrontare.
L’Italia ha ragione a non voler sembrare un paese sotto osservazione che tratta uno sconto con Bruxelles per salvarsi l’osso del collo. Perché, su spinta di Roma e Parigi, la flessibilità l’hanno chiesta tutti i leader europei al summit di giugno. E perché il futuro presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si è impegnato a cambiare rotta nella gestione dei bilanci pubblici allentando l’austerità. Ed è proprio l’ex premier lussemburghese ad essersi già messo al lavoro per trovare un meccanismo che consenta di tradurre in qualcosa di concreto il principio generale sulla flessibilità enunciato di fronte all’Europarlamento. Al momento sul dossier lavorano i servizi della Commissione, ed è proprio negli uffici dei funzionari esperti di economia e finanze che circolano i documenti con l’ipotesi di alleggerire il carico ai governi nazionali, portando dallo 0,5% allo 0,25% il taglio del deficit annuo obbligatorio per ogni capitale. Una soluzione che non sarebbe ritagliata ad hoc per l’Italia, ma che riguarderebbe tutti i paesi impegnati a fare le riforme strutturali care all’Europa e alla Germania ma che contemporaneamente devono affrontare una nuova recessione, per di più accompagnata dallo spettro della deflazione. La Francia — che ha un deficit che galleggia intorno al 4% — un esempio su tutti.
Un lavoro difficile quello di Bruxelles, con la Commissione chiamata a trovare un’arma per dare più fiato ai governi nazionali in grado di trovare il via libera di tutti i soci dell’euro, Germania e nordici in testa. Da qui la cautela con il quale gli studi e le simulazioni vengono gestite dai tecnici comunitari. La materia è tanto difficile che nelle ultime ore è stata annullata la riunione degli sherpa dei governi, della Commissione e della Bce incaricati di esaminare il dossier della svolta con la flessibilità e un piano di investimenti, altra richiesta italofrancese entrata nell’agenda di Juncker, in grado di rilanciare l’economia a suon di miliardi di euro. È probabile che prima di mostrare ai rappresentanti delle Cancellerie le proposte partorite da Bruxelles ci sarà una prima riunione preparatoria degli staff di Juncker, del presidente uscente Barroso e del suo commissario agli Affari Economici, il finlandese Katainen. Juncker in Europa si è guadagnato la fama di grande mediatore e sa che la partita è delicata, non può bruciarsi con una bocciatura prima ancora di entrare in carica, a novembre: per questa ragione prima di uscire allo scoperto con le proposte per cambiare le politiche economiche della zona euro dovrà essere certo di avere il via libera dei governi che contano. Il suo lavoro per la svolta durerà mesi.



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