Il « mea culpa » del Fmi

Il « mea culpa » del Fmi

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Tanto nei governi nazio­nali quanto nelle isti­tu­zioni euro­pee si mol­ti­pli­cano le voci cri­ti­che o per lo meno i dubbi nei con­fronti delle poli­ti­che di auste­rità. Se diversi eco­no­mi­sti sot­to­li­neano da anni quanto tali poli­ti­che siano sba­gliate spe­cial­mente in una fase reces­siva, il dibat­tito ha subito un’accelerazione ad ini­zio 2013, con lo «stu­pe­fa­cente mea culpa da parte del capo eco­no­mi­sta del Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale», come aveva al tempo tito­lato il Washing­ton Post.

Rias­su­mendo, nello stu­dio Gro­wth Fore­cast Errors and Fiscal Mul­ti­pliers, Oli­vier Blan­chard assieme a Daniel Leigh ana­lizza l’impatto dei piani di auste­rità pro­po­sti, o meglio impo­sti, a mezza Europa. Pur tenendo conto di dif­fe­renze legate alla situa­zione dei sin­goli Paesi, le con­clu­sioni sono piut­to­sto nette: nella gran parte dei casi, l’austerità è un danno per l’economia e l’occupazione.

Peg­gio ancora, non fun­ziona nem­meno per rimet­tere a posto i conti pub­blici, ovvero per dimi­nuire il fami­ge­rato rap­porto tra debito pub­blico e PIL, vero e pro­prio faro che guida le scelte poli­ti­che di tutti i Paesi occidentali.

Dimen­ti­chia­moci per un momento che la crisi è stata cau­sata da una gigan­te­sca finanza pri­vata fuori con­trollo, e non certo dalla finanza pub­blica. Ammet­tiamo che siano adesso gli Stati a dovere rimet­tere a posto i conti pub­blici, e non delle ban­che pri­vate som­merse di titoli tos­sici e che con­ti­nuano a lavo­rare con leve finan­zia­rie degne di avven­tu­rieri da casinò. Sup­po­niamo anche che lo stato di salute di un Paese vada valu­tato in base al rap­porto tra debito pub­blico e Pil e non al benes­sere dei cit­ta­dini o al tasso di disoc­cu­pa­zione, tanto per fare un paio di esempi.

Anche par­tendo da que­ste ipo­tesi, in realtà ampia­mente cri­ti­ca­bili se non com­ple­ta­mente false, il pen­siero main­stream assi­cu­rava che la strada mae­stra per «met­tere a posto» i conti e ridurre il rap­porto debito/Pil era una sola: piani di auste­rità, tagli alla spesa pub­blica, sman­tel­la­mento del wel­fare. Ana­liz­ziamo que­sto rap­porto. Se si taglia la spesa pub­blica, a parità di entrate dimi­nui­sce il defi­cit e quindi tende a miglio­rare — o per lo meno a peg­gio­rare di meno — il debito pubblico.

C’è però una dif­fi­coltà: tagliare la spesa pub­blica vuole dire meno inve­sti­menti, meno denaro per i dipen­denti pub­blici, meno ser­vizi e via discor­rendo, ovvero una dimi­nu­zione del Pil. Nel rap­porto debito/Pil, quindi, da un lato quindi i piani di auste­rità fanno calare il nume­ra­tore, dall’altro però cala anche il denominatore.

Non c’è pro­blema, soste­neva il Fmi. Abbiamo fatto i conti, e il debito dimi­nui­sce più rapi­da­mente del Pil. Nel com­plesso, quindi, il rap­porto debito/PIL migliora. Certo, la ric­chezza dimi­nui­sce, tagli al wel­fare signi­fi­cano meno risorse pro­prio per le classi più deboli, aumen­terà la disoc­cu­pa­zione, nel breve si rischia di acuire una reces­sione già in atto, cre­scono le diseguaglianze.

Sono però tutti prezzi da pagare. Nel suo insieme, lo stato di salute del Paese migliorerà.

E invece no. Lo stu­dio del 2013 segnala che tagliando la spesa pub­blica il PIL dimi­nui­sce più rapi­da­mente di quanto non dimi­nui­sca il debito. Il rap­porto con­ti­nua a peg­gio­rare. I piani di auste­rità non solo sono deva­stanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico.

Anche senza grandi ana­lisi teo­ri­che, sarebbe pro­ba­bil­mente stato suf­fi­ciente vedere cosa sta suc­ce­dendo in tutti i Paesi che in que­sti anni hanno dovuto accet­tare le misure di auste­rità. Dall’Italia alla Spa­gna fino alla mar­to­riata Gre­cia, non solo la disoc­cu­pa­zione è rapi­da­mente aumen­tata, non solo si sono rag­giunti livelli di povertà e di disu­gua­glianze intol­le­ra­bili, ma per­sino il prin­ci­pale obiet­tivo da rag­giun­gere, ovvero l’aggiustamento dei conti pub­blici, si sta risol­vendo in un fal­li­mento, e il rap­porto tra debito e Pil con­ti­nua a peggiorare.

Alla luce sia delle recenti teo­rie sia della situa­zione euro­pea, sarebbe il caso di ridi­scu­tere alla base le ricette di poli­tica eco­no­mica. Non solo riguardo l’austerità. Lo stesso Fmi negli ultimi tempi è arri­vato a rimet­tere in discus­sione per­sino la libertà di movi­mento dei capi­tali, ini­ziando a rico­no­scere come alcuni con­trolli sui flussi finan­ziari in entrata e in uscita dai Paesi siano oppor­tuni, se non necessari.

Pur se con note­voli limiti ed ecce­zioni, è pro­ba­bil­mente un passo ancora più cla­mo­roso di quello riguar­dante il fal­li­mento dell’austerità.

Segnali che il pen­dolo sta forse ini­ziando a tor­nare indie­tro, dopo la lunga fase di ege­mo­nia libe­ri­sta. Ana­lisi teo­ri­che ed evi­denza empi­rica che non sem­brano però ancora por­tare a un’inversione di rotta nelle poli­ti­che di un’Europa a dire poco in enormi dif­fi­coltà. Ripen­sare le scelte eco­no­mi­che, mone­ta­rie e finan­zia­rie signi­fica fare emer­gere le voci cri­ti­che e discor­danti, creare con­senso e ribal­tare l’immaginario costruito in que­sti anni. La varia­bile fon­da­men­tale è il tempo a dispo­si­zione per tra­sfor­mare i mea culpa in deci­sioni poli­ti­che ed effet­tuare una virata non più rimandabile.



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