“Referendum per abrogare il Jobs Act”

“Referendum per abrogare il Jobs Act”

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ROMA . Un referendum per abrogare il Jobs Act. «È un’ipotesi da valutare con grande attenzione », ammette Stefano Fassina, minoranza pd. D’altro canto, con una partita parlamentare praticamente chiusa «mani legate» le definisce l’ex viceministro dell’Economia forse è opportuno «tornare a parlare con chi sta fuori dai palazzi, a tutti, anche quelli non toccati dalla legge, come fu per la consultazione sull’acqua». E magari spiegare che cos’è il Jobs Act. Ci crede Fassina. Anche perché come ammette Miguel Gotor, senatore bersaniano, «la battaglia politica non può avere più una ricaduta parlamentare ». La delega sul lavoro – il Jobs Act – è ormai legge, la 183 del 2014. Il governo ha approvato i primi due decreti delegati. Alle Commissioni di Camera e Senato spetta un parere, ma solo consultivo.
«L’opinione delle Commissioni pesa», osserva Guglielmo Epifani, ex leader Cgil, ex segretario del Pd, ora deputato, che però ha votato sì alla riforma del lavoro di Renzi. Potrebbe pesare politicamente se il governo ne tenesse conto. Difficile, annusata l’aria che tira. «Si tratta di capire da un punto di vista costituzionale se c’è stato eccesso di delega da parte del governo», spiega Gotor. Altro i parlamentari non possono fare. Esiste poi la possibilità di un ricorso alla Corte Costituzionale, perché «per la prima volta, a parità di contratto a tempo indeterminato, hai due lavoratori con diritti diversi». Quello con l’articolo 18 e quello senza. «Vedo una lesione costituzionale», sibila Gotor. Ci vorranno mesi.
Eccesso di delega. Corte. Referendum abrogativo. Queste le strade per contrastare il Jobs Act. La consultazione popolare è di certo la più forte. Si vedrà. Intanto tornano sulle barricate anche i “trattativisti” del Pd capitanati da Cesare Damiano e dal capogruppo dem Roberto Speranza. Damiano è alla guida della Commissione Lavoro che alla Camera è chiamata a dare il parere al governo. Un parere non vincolante ma – sottolinea Speranza – politicamente rilevante. Bocciano le deleghe così come sono state scritte e chiedono la modifica di tre punti. Innanzitutto un “no” deciso ai licenziamenti collettivi, che «non erano previsti», spiega Damiano. E poi «da correggere l’indennità di licenziamento che non può essere di 4 mensilità ma almeno di 6, e da reintrodurre il riferimento ai contratti collettivi a proposito di licenziamento ». L’ex sindacalista Fiom ricorda che su questa trincea ci sono una settantina di deputati dem, che si riconoscono nella corrente “Area riformista”. «Trattare non significa scendere dalle barricate».
Anche se la battaglia parlamentare è ormai superata, il pressing politico resta e agita il Pd. Non sarebbe bene affrontare il passaggio delicato dell’elezione del presidente della Repubblica a fine gennaio, reduci da uno scontro duro nel partito proprio sul lavoro. È l’avvertimento a Renzi. Guglielmo Epifani, Enzo Amendola, Andrea Manciulli sono in prima fila sul fronte delle correzioni, pur avendo assunto sul Jobs Act posizioni di dialogo con il governo e evitato la fronda della sinistra di Cuperlo, Fassina, Civati. Speranza valuta positivamente i risultati ottenuti: «Abbiamo evitato la pretesa impropria di azzerare la possibilità di reintegro. Ora però i pareri del Parlamento devono valere per modificare ulteriormente il testo definitivo del governo».


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