La Spagna vuole cambiare. Costi quel che costi
Mancano circa otto mesi al più importante cambio politico sullo scenario spagnolo dalla caduta della dittatura franchista. Si terranno infatti verso fine novembre le elezioni generali che metteranno fine alla diarchia Pp/Psoe, giunta ormai al termine del suo ciclo, anche se l’agonia del sistema dura già da parecchio tempo e la situazione politica riporta di giorno in giorno la cronaca di una morte annunciata: basti guardare lo scollamento tra l’attuale eppure già anacronistica fotografia parlamentare, ancora divisa a metà tra Partido popular e socialisti, e la realtà politica evidenziata dai numeri.
I sondaggi dicono chiaramente che il bipartitismo si è rotto in uno scenario quadripartito in cui ciascuna delle forze politiche si attesta sul filo del 20% (dati Metroscopia). Con Podemos che guarda tutti dall’alto in basso a solo un anno dalla sua fondazione. A seguire Popolari e socialisti, che si scambiano gli altri due gradini del podio a seconda dei sondaggi, e il partito di centro-destra Ciudadanos, in spettacolare ascesa negli ultimi mesi. Da gennaio a marzo la formazione di Albert Rivera è passata dal 10 al 18%, consacrandosi come il referente politico dell’indignazione di destra. L’exploit, infatti, si deve in buona parte alla migrazione degli elettori popolari esasperati dalle malversazioni del Pp. Secondo un’inchiesta della radio Cadena Ser addirittura il 40% dei simpatizzanti di Ciudadanos avrebbe Votato Rajoy alle scorse politiche.
Inerzia invertita, invece, per Podemos, che per la prima volta fa registrare una flessione: — 5% in tre mesi, secondo gli ultimi dati di Metroscopia pubblicati domenica sul País. Un risultato su cui incidono senza dubbio la gestione non proprio brillante dello scivolone fiscale del numero due del partito Carlos Monedero (riguardante la tassazione di un introito di 425.000 euro per una consulenza ai paesi dell’Alleanza bolivariana) e gli effetti di una controffensiva elettorale incessante e intensissima da parte dei partiti maggioritari.
Nel gioco dei contrappesi, all’affermazione delle nuove forze corrisponde il crollo dell’ancient régime: dal 2011, anno delle ultime politiche, il Pp ha dilapidato quasi 26 punti, passando dal 44,6% con cui raggiunse la maggioranza assoluta al 18,6%. Per i socialisti il tonfo è dell’8%: dal 28,7 a circa il 20. I popolari pagano la corruzione dilagante, l’incapacità di tamponare la ferita della disoccupazione e le politiche di austerità che hanno provocato gravi danni sociali senza risultati sulla ripresa economica. I socialisti, invece, scontano un’opposizione incolore e, in generale il peccato originale di appartenere alla vecchia guardia politica.
Nella Spagna di oggi c’è voglia di cambio a tutti i costi. La conferma arriva scorrendo i numeri dei partiti rimasti fuori dal club del 20%, che pagano anch’essi il loro tributo all’avanzata delle nuove leve. Izquierda unida, ad esempio, ha assistito ad un cospicuo travaso di voti verso Podemos. I sondaggi indicano un calo tra –2 e –5% per Iu, che non andrebbe dunque oltre il 3%. E anche UPyD, partito di centro, ha dovuto cedere la sua quota di voti soprattutto a Ciudadanos.
Lo scacchiere politico iberico è dunque in pieno fermento. Ormai è chiaro quali siano i protagonisti del nuovo assetto politico, ma restano da definire i rapporti di forza all’interno dell’attuale tetrapartitismo, nato dalle ceneri del lungo duopolio Pp/Psoe.
Ad oggi, gli equilibri tra le quattro forze politiche sembrerebbero bilanciati. Sulla strada delle politiche ci sono però alcune importanti pietre miliari che potrebbero alterare la situazione attuale: le regionali e comunali di maggio, anticipate dall’Andalusia, che vota il prossimo 22 marzo, e seguite dalla Catalogna che va alle urne a settembre. Questi appuntamenti daranno importanti indicazioni e permetteranno di affinare il pronostico, mantenendo sempre un occhio sull’evolversi della situazione greca, che potrebbe avere ripercussioni sulla parabola di Podemos.
Ad ogni modo, se le gerarchie all’interno del neonato tetrapartitismo dovessero rimanere così sfumate si prospetta una frammentazione parlamentare «all’italiana» e alleanze di governo al momento difficili da prevedere.
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