Dal Paraguay al Venezuela, la strategia del golpe blando
Golpe blando o golpe istituzionale. Di solito è preparato da una «guerra» di debole intensità, una «guerra» non convenzionale, giocata con armi mediatiche e giudiziarie atte a preparare il terreno per la deposizione dei presidenti non graditi a Washington: solitamente nel silenzio-assenso degli organismi internazionali.
Una pratica assai frequentata a partire da inizio secolo in America latina, quando il vento del «socialismo del XXImo secolo» ha cominciato a spirare nel continente, portando al governo Hugo Chavez in Venezuela, e gli altri componenti dell’Alba (l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, ideata da Cuba e Venezuela, a cui hanno aderito Bolivia, Ecuador, Nicaragua…), ma anche i presidenti progressisti dei grandi paesi, come i Kirchner in Argentina o Lula da Silva e poi Dilma Rousseff in Brasile.
Il primo a fare le spese del golpe istituzionale fu Chavez. Il presidente de facto e capo degli imprenditori, Carmona Estanga, appoggiato da gran parte dei personaggi che animano l’attuale parlamento venezuelano, disse che il presidente si era dimesso, mentre era stato sequestrato. Poi toccò a Manuel Zelaya, in Honduras, sostituito da un governo de facto, nel 2009. E poi a Fernando Lugo, in Paraguay, il cui pretestuoso impeachment, lungamente preparato dal suo vice Fernando Franco, portò a un governo più gradito alle grandi consorterie internazionali. Quelle stesse che hanno puntato al Brasile, e che ora foraggiano l’opposizione venezuelana per cacciare dal governo l’ex operaio del metro Nicolas Maduro. Senza dimenticare la richiesta d’impeachment nei confronti di Cristina Kirchner che, per il carisma di cui gode, resta un obbiettivo da abbattere.
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