Iran, libertà per Sakineh l’adultera sfuggita al boia

Iran, libertà per Sakineh l’adultera sfuggita al boia

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Vi ricordate di Sakineh? Per mesi, nel 2010, era stata l’iraniana più celebre al mondo, la madre di famiglia condannata alla lapidazione per adulterio e comunque destinata alla morte per concorso nell’omicidio del marito. Ora, otto anni dopo l’arresto e quattro dall’enorme mobilitazione internazionale che aveva coinvolto società civili e governi, Sakineh Mohammadi Ashtiani è tornata libera. Lo ha annunciato martedì a Teheran il Segretario generale del Consiglio Superiore iraniano per i diritti dell’uomo, Mohammad Javad Larijani: «È stata scarcerata per la sua buona condotta e perché la nostra religione ha misericordia nei confronti delle donne», ha spiegato Larijani, consigliere della Guida Suprema e fratello del più celebre Ali, capo del Parlamento. Non è chiaro se il rilascio sia definitivo anche se è probabile. L’intricata vicenda giudiziaria della donna di Tabriz oggi 47enne, arrestata nel 2006 e più volte vicina alla lapidazione o alla forca (comprese finte esecuzioni e con vari annunci, poi smentiti, di condanna eseguita), pare terminata. Il suo nome tornerà a circolare per qualche giorno e poi sarà dimenticato.
Eppure per lei si era mobilitato davvero mezzo mondo: manifestazioni si erano tenute in decine di città, la sua gigantografia era stata appesa nelle capitali (a Roma sul Campidoglio), l’Unione europea, gli Stati Uniti, la Francia e altri governi avevano lanciato condanne e appelli a Teheran accanto a tutte le Ong umanitarie, a stuoli di intellettuali (in prima fila Bernard-Henri Lévy). Il brasiliano Lula le aveva offerto asilo politico (rifiutato da Teheran). E l’impresa non era stata solo quella di «salvare Sakineh», ormai icona indiscussa della feroce follia della Repubblica islamica, ma di capire qualcosa nell’opaco iter giudiziario della donna, tra avvocati arrestati o costretti a fuggire, il figlio-portavoce anche lui in cella, il silenzio dei media locali, le affermazioni contradittorie delle autorità. Ancora oggi non è davvero certo cosa sia successo: recentemente era circolata la voce del suicidio di Sakineh, prima ancora erano uscite «notizie» che confermavano la pena di morte. Poi l’annuncio di Larijani, seppure carente di dettagli. «Sakineh è libera».
Resta il fatto che se il mondo era insorto nel nome di una detenuta comune, sulla cui innocenza i dubbi sono più che leciti anche se certo la pena di morte non sarebbe stata accettabile, in Iran ci sono centinaia di prigionieri condannati o in attesa di giudizio, torturati o uccisi, spesso solo per reati politici, ignorati quasi del tutto da noi. Tra i tanti nomi, quello di Bahareh Hadayat, l’attivista e femminista 33enne condannata nel 2010 a dieci anni per il suo impegno, malata e non curata nel famigerato carcere di Evin. Una campagna per liberarla è stata lanciata dagli esuli politici iraniani, prima tra tutti dalla Nobel Shirin Ebadi. Nel convegno del Sant’Anna di Pisa, l’8 marzo, Ebadi e molte attiviste e studiose iraniane hanno chiesto a tutti di non dimenticarla, di aiutare Bahareh e le tante altre donne (e uomini) sepolte vive nel silenzio del mondo.
Cecilia Zecchinelli


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