DIRITTI UMANI. La verità sui nomi di Guantanamo

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(da La Repubblica, DOMENICA, 05 MARZO 2006, Pagina 17 – Esteri)

La verità sui nomi di Guantanamo

L´Amministrazione Usa costretta a rivelare l´identità dei prigionieri

Non è ancora l´incriminazione formale o la promessa di un processo
Molti detenuti sono finiti a “Camp X Ray“ perché accusati dalla polizia afgana

Grazie alla Legge sulla libertà di informazione, l´agenzia “Ap“ ha ottenuto la lista

Vittorio Zucconi

WASHINGTON
NEL QUINTO anno del loro “non essere“, i prigionieri dello zoo di Guantanamo riacquistano almeno un nome e tornano a essere uomini. Forse pessimi uomini, forse criminali o «combattenti nemici», come li definisce l´amministrazione Bush, ma almeno non più spettri in tuta arancione.
Non è ancora un´incriminazione formale, né la speranza di un processo e della determinazione del loro essere terroristi o innocenti, che soltanto dieci di loro, su 500, hanno ottenuto. La lista di alcuni nomi, pubblicata per ordine di un giudice su istanza della agenzia di stampa Associated Press è soltanto il primo passo verso il ritorno della “grande democrazia americana“ a quelle pratiche legali e a quella giurisprudenza costituzionale che l´avevano fatta, appunto, grande.
La vergogna morale e giuridica di quel limbo collocato fuori dal tempo e dallo spazio, nella piccola enclave di territorio cubano affittato agli Stati Uniti ma senza esserne parte, comincia a incrinarsi sotto lo scalpello dei media, della professione legale e dei giudici. Il Pentagono, che ha l´amministrazione diretta dello stalag di Camp X Ray, ha dovuto piegarsi al giudice Jed Rakoff che aveva sentenziato in favore della Ap, in base alla Legge sulla libertà di informazione. Non si trattava di stabilire se quei 600 uomini transitati da Guantanamo, dei quali 490 sono ancora in gabbia e oltre 100 sono stati rilasciati perché ingabbiati per sbaglio, siano stati torturati, se siano innocenti, ma soltanto di sapere chi fossero, se avessero un nome, un´identità, non bestie, ma umano.
Fino all´ultima ora e più, l´amministrazione militare ha resistito. Il rappresentante del Pentagono ha lasciato passare la deadline, la scadenza imposta dal giudice Rakoff. Ha atteso ancora 20 minuti e poi ha consegnato al tribunale e quindi alla stampa un dischetto Dvd con 600 pagine di materiale grezzo tra il quale ci sono anche i nomi. E ancora l´avvocato militare ha tentato un´ultima manovra disperata, ripresentandosi trafelato e riprendendosi quel Dvd, perché quei nomi «avrebbero messo in pericolo le famiglie dei detenuti, nei rispettivi Paesi».
Il giudice lo ha mandato via.
Pubblica è cosi divenuta la storia di Omar Khadr, un cittadino canadese, imprigionato perché accusato di avere sparato contro una pattuglia americana in Afghanistan.
Conosciamo il nome e le proteste di Zahir Shah, un altro afgano che possedeva un fucile da caccia, «come da noi hanno tutti». L´accusa, mai formalizzata, è di avere invece posseduto un “lanciagranate“. «Ma che me ne sarei fatto di un lanciagranate in campagna, in mezzo ai campi dove coltivavo cocomeri?» ha protestato lui, inutilmente. Da quasi cinque anni è rinchiuso a Guantanamo perché la cosiddetta “polizia“ del villaggio lo aveva consegnato ai soldati americani che promettevano taglie. Secondo uno studio appena pubblicato, condotto dalla facoltà di giurisprudenza della università di Seton Hall, l´86 per cento dei prigionieri intrappolati nel limbo non sono stati catturati dalle truppe americane, ma consegnati da agenti dei servizi pachistani o da capibanda della guerriglia, quando gli Stati Uniti pagavano per ogni testa.
Talmente confuso e surreale è quello spicchio di mondo in territorio cubano che neppure i carcerieri sono certi della identità di alcuni dei loro detenuti. Uno di loro è identificato come Jumma Jan nei registri del campo, ma in tutti gli interrogatori lui insiste di chiamarsi Zain ul-Abedin. «Mente» risponde il Pentagono, perché questa è l´ultima formula adottata per giustificare lo scandalo legale di Guantanamo, che sono tutti bugiardi. E´ la “formula Manchester“, così chiamata dopo un discorso del segretario della Difesa Donald “Rummy“ Rumsfeld appunto a Manchester nel quale ha spiegato che «i terroristi sono addestrati a mentire». Mentono, naturalmente soltanto quando dicono qualcosa di sgradito ai loro carcerieri, mentre divengono attendibilissimi quando confessano quello che Washington vuol sentirsi dire, come nel caso delle 20 «guardie del corpo di Osama Bin Laden» internate a Guantanamo o dell´»autista di Osama» che dovrebbe essere processato per avere guidato l´automobile del profeta di Al Quaeda.
Non ci sono dubbi, invece, sul progressivo sgretolamento morale, politico e ora legale di questo campo che ha prodotto più imbarazzi che successi alla Casa Bianca. I giudici non possono fare a meno di riconoscere l´incostituzionalità e l´illegalità di comportamenti che hanno spinto le Nazioni Unite a chiedere formalmente la chiusura di Camp X Ray, rifiutando una visita diretta al campo nella quale ai propri ispettori sarebbe stato proibito ogni colloquio diretto e riservato con i prigionieri, dunque senza alcun valore testimoniale. Come ogni prigionieri di guerra ha sempre saputo, gli ispettori delle Croci Rosse o dell´Onu se ne vanno, i carcerieri rimangono.
Il valore reale di confessioni estorte con la tortura è sempre dubbio se non nullo, come dimostra il mistero del “Ventesimo Kamikaze“. Mohammed al-Qahtani aveva ammesso di essere lui il quinto uomo che mancava sul volo 93, quello che vide soltanto quattro dirottatori, prima di schiantarsi in Pennsylvania. Ma ora al-Qahtani ha ritrattato tutto, sostenendo di essere stato torturato. Di nuovo sarà tra pochi giorni un giudice a dover stabilire se l´autodenuncia del “Ventesimo Kamikaze“ sia accettabile in tribunale. Se dovesse accettarla, ogni confessione strappata sotto tortura diverrebbe ammissibile, rovesciando secoli di giurisprudenza occidentale. Se la respingesse, praticamente nessuna delle parole dei prigionieri di Guantanamo avrebbe più alcun valore. E questa presidenza Bush avrebbe un altro conto aperto con lo spirito e la pratica di quella civiltà del diritto che ha promesso di difendere e di espandere a ogni costo.

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