Ricercatori, un «obolo» per fermare la protesta

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Il primo giugno scorso i ricercatori di un grande ateneo del nord Italia hanno ricevuto nella posta elettronica un progetto sulle possibili soluzioni per aggirare il blocco della didattica stabilito dalla mobilitazione dei ricercatori contro la riforma Gelmini sull’università . Dalla riduzione delle ore di insegnamento a una somma «simbolica» di mille euro all’anno da destinare ai ricercatori se le proteste dovessero proseguire. Il documento (del quale siamo in possesso) è stato redatto dal preside di una facoltà  ed è probabile che sia il frutto di un’ampia consultazione avvenuta nelle ultime settimane tra i vertici dell’ateneo. Indiscrezioni confermano che nelle facoltà  in agitazione in tutto il paese, in particolare a Milano, stiano da tempo circolando ipotesi dello stesso tenore. Venendo meno alla regola dell’apparente tranquillità  con la quale la comunità  accademica ha assistito al dibattito sulla riforma, questo preside ha finalmente scattato la fotografia dello stato reale in cui versa l’università . I tagli al fondo di finanziamento dell’ateneo priveranno una facoltà  composta da 210 docenti di quello che, senza ironia, viene definito il «vasto polmone di didattica addizionale» assicurata dai docenti a contratto e dai ricercatori precari. Queste persone senza diritti hanno fino all’altro ieri assicurato 5427 ore di didattica, laboratori e tirocini corrispondenti a 90 corsi. Una percentuale enorme se confrontata con le ore di insegnamento dei professori ordinari (7070), dei professori associati (5253) e dei ricercatori (4450).
Si tratta comunque di una stima per difetto perché dal conto non sono stati considerati i ricercatori che hanno aderito alla protesta contro il Ddl Gelmini. Se si astenessero in massa dagli incarichi didattici non previsti dalla legge 382, allora le ore scoperte diventerebbero 9877 e a saltare sarebbero 164 corsi. A tre mesi dall’inizio dell’anno accademico sono a rischio le iscrizioni al primo anno e la tenuta dei corsi degli anni successivi. Ciò che si approssima in un futuro nemmeno tanto lontano (il 2011) è la chiusura di interi corsi di laurea. Non quelli giudicati «inutili» dal Ministero dell’università  che nell’offerta formativa 2010 ne ha già  cancellati 469, ma quelli che costituiscono il fiore all’occhiello per numero di iscritti e per qualità  della ricerca.
Questa bomba rischia di esplodere nel prossimo biennio quando il già  previsto pensionamento dei docenti (oltre 7 mila persone su un totale di 62.709) imporrà  a livello locale una riduzione generalizzata dell’offerta didattica e la conseguente riduzione delle iscrizioni degli studenti non interessati a frequentare un’università  priva di contenuti. Al disastro che farebbe tremare i polsi a chiunque, il preside aggiunge l’azzeramento dei fondi interni per la ricerca, delle borse di studio, degli assegni di ricerca e delle spese per il riscaldamento.
Sono diversi i rimedi prospettati. Si parte da quelli che l’attuale governo giudicato «riluttante» non ha intenzione di prendere: aumento delle tasse per gli studenti per contrastare la «crisi di liquidità » degli atenei; chiusura di quelli in deficit; aumento del carico didattico dei docenti; devolution delle competenze sull’università  dallo Stato alle regioni sul modello della riforma sanitaria. Si propone di colmare i vuoti prodotti dallo sciopero dei ricercatori riducendo le ore di insegnamento dei docenti del 25 per cento. In questo contesto, non è escluso che si arrivi ad assegnare agli stessi ricercatori un carico didattico di 50 ore. Si invita infine l’ateneo a mettere a disposizione delle facoltà  una somma simbolica di 1000 euro per garantire tutti gli insegnamenti a contratto ritenuti essenziali. Qualora non fosse disponibile nemmeno questa somma, si chiede di svincolare i fondi destinati all’edilizia.
Un altro dei fronti che potrebbe aprirsi ad ottobre sono i ricorsi degli studenti alle associazioni dei consumatori o ai tribunali contro le inadempienze contrattuali degli atenei. Un rischio che, stando al documento, l’università  dovrebbe evitare per il danno d’immagine che andrebbe ad aggiungersi alla consolidata rappresentazione dei docenti come «fannulloni» e promotori di logiche «nepotistiche» quando attivano corsi e indicono concorsi. Tagliata, dequalificata e, prossimamente, tacciata di diserzione perché diminuisce le proprie ore di lavoro invece di pagare i sacrifici della crisi come il resto del pubblico impiego. È questo il prodotto di un decennio di sfruttamento del lavoro precario e della soppressione del ruolo del ricercatore voluta dal Ddl Gelmini. Una trappola dalla quale l’università  italiana non uscirà  facilmente.


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