A tremare sono i nostri produttori “Ci sarà  l’invasione del latte straniero”

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ROMA- Il latte non si è globalizzato. Quello fresco è rimasto local, quasi mai oltrepassa i confini nazionali. Eppure l’Italia – per colpa anche delle famose quote latte – ne produce troppo poco per il suo fabbisogno. Per fare i formaggi di bassa qualità  e prodotti industriali deve importarlo e aprire le porte a milioni di quintali di latte del tipo a lunga conservazione, Uht, che, di fatto, non ha nazionalità . «Siamo il paese europeo con il più alto deficit di consumi», spiega Maurizio Gardini, presidente di Fedagri-Confcooperative. Ogni anno consumiamo 180 milioni di quintali di latte ma dai nostri impianti ne escono solo 110 milioni. I settanta che mancano arrivano per forza dall’estero. Una Parmalat transalpina finirà  per accrescere lo squilibrio. Per questo tremano gli allevatori che forniscono il gruppo di Collecchio risanato da Enrico Bondi. Questa è la vera “italianità ” in gioco. Intorno al latte c’è un giro d’affari superiore ai 20 miliardi di euro l’anno, secondo alcune stime dell’Ismea, l’istituto per i servizi e il mercato agricoli. Sono oltre 40 mila le aziende, 1,8 milioni le vacche da latte. In un decennio abbiamo perso oltre 27 mila imprese, ma i livelli produttivi sono rimasti intatti perché è accresciuta l’efficienza e perché le quote sono via via aumentate. Il 60 per cento della produzione arriva da aziende cooperative (l’80 per cento da quelle aderenti alla Confcooperative, il 18 da quella della Lega, il 2 dall’Agci), il resto da singoli produttori che vendono all’industria. È un modello fortemente italiano, con pregi e difetti. Padano, in senso letterale. Quasi il 90 per cento del latte commercializzato arriva da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Modello italiano, fatto, dunque, anche di “nanismo” aziendale. Lo stesso che ci rende assai difficile mettere in campo una cordata per contrastare l’aggressione del “campione nazionale” francese di Lactalis. Le aziende nostrane hanno in media 27 vacche, in Francia e Germania ne hanno 37 e in Gran Bretagna 160. Così – in Italia – il 41 per cento del patrimonio è detenuto da poche grandi imprese (il 7 per cento del totale) mentre il resto è diviso tra l’82 per cento delle piccole o piccolissime imprese. Il latte italiano costa anche di più. Siamo in vetta alla classifica tra i paesi dell’Europa a 27. Dopo l’orribile 2009, per i produttori, con il prezzo di un litro di latte che è sceso sotto i 30 centesimi, ora viaggiamo tra i 37 e i 39,5 centesimi, contro i 32-35 della Baviera e i meno di 30 della Francia. Pesano i costi di produzione: gli alimenti per il bestiame (quasi la metà  dei costi di gestione) e la bolletta energetica che è per circa il 30 per cento superiore alla media europea. Per fare il parmigiano vanno seguite regole ferree nell’alimentazione delle vacche. Per questa ragione il prezzo di un litro di latte destinato al parmigiano sale a oltre 40 centesimi. Ma il parmigiano, il grana padano, e poi il gorgonzola, l’asiago, la provola, la mozzarella di bufala ecc, sono il made in Italy dell’industria alimentare. «È la prossimità  tra produttore e trasformatore è fondamentale», spiega Gianpiero Calzolari, presidente della Granarolo (Lega coop), concorrente di Parmalat, pronto ad alleanze industriali con Collecchio. E convinto che la discesa dei francesi su Parma rischia di provocare anche «effetti sull’occupazione». Quello della qualità  è un problema che i tedeschi, per esempio, non hanno. Loro non hanno prodotti “dop”, lungo la filiera lattiero-casearia. Esportano più latte di quanto ne consumino. Possono stoccare il latte e poi esportarlo: latte Uht oppure burro o latte in polvere. Ma è proprio questa la differenza tra noi e gli altri.


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