Contro il nichilismo per un’altra Italia

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Un grande paese. L’Italia tra vent’anni e chi la cambierà  (Rizzoli) è una sorta di perorazione allegra e leggera, ma insistita contro il cinismo che sembra essersi impossessato della società  in tutte le sue manifestazioni. Nel descrivere la situazione culturale del paese Sofri ricorre agli esempi e alle citazioni più diverse, da Barack Obama a Dino Zoff, da Piero Gobetti a Woody Allen, da Goffredo Fofi all’Uomo Ragno, ma il discorso fila piuttosto coerente, anche quando sembra divagare, attorno a un concetto fondamentale: responsabilità . Cosa saremo tra vent’anni dipende da quello che cominciamo a fare qui e ora, da subito. Il male più grave di cui soffriamo, a giudizio di Sofri, è il nichilismo che annulla tutti i valori in una pappa omogenea dove non è possibile distinguere alcunché. L’elenco delle virtù che il libro gli oppone ha un sapore antico. La possibilità , anzi il dovere, di separare il giusto dall’ingiusto, e quantomeno provare ad attuarli. La necessità  di stabilire una gerarchia nei saperi, l’umiltà  di riconoscere i maestri ed essere disposti a imparare. Ma Luca Sofri illustra il suo, serissimo, discorso senza pomposità . Così, un referendum sull’opportunità  di continuare a somministrare lasagne ai bambini nella mensa scolastica può diventare l’esempio di come ogni angolo della vita pubblica sia pervaso dalla demagogia populista e insieme dalla incapacità  di assumersi le proprie responsabilità  da parte di chi deve prendere anche la più banale delle decisioni. Protagonista delle pagine più appassionate del libro è proprio l’abdicazione delle classi dirigenti (tutte, non solo il ceto politico) al proprio ruolo. La leadership dovrebbe consistere nella capacità  di guidare, di indicare la strada, di imporre scelte difficili, se necessario. In mancanza di questo si riduce all’esercizio dei privilegi. A sorpresa, Sofri ci dice che però le élite sono utili, anzi necessarie, e che se quelle attuali sono palesemente inadeguate, non bisogna abolirle, piuttosto rimpiazzarle. Magari con nuove generazioni capaci di comprendere quanto occuparsi con altruismo degli affari pubblici sia innanzitutto nel proprio interesse. Ce la faremo? L’appuntamento è tra vent’anni.


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Sappiamo che alla visione del mondo, quale essa sia, siamo solo abituati. Il mondo «vero» e per noi indubitabile in cui agiamo è un’opera collettiva della connessione reciproca, molto di piຠdi una comunicazione, anche se la connessione è certificata dalla lingua che parliamo.

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