Il trionfo dell’esibizionismo nell’era dei social network

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E le due cose, come si scoprirà  prima o poi (a condizione, naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare, che cosa sia la “comunità “, occupati come si è a crearsi reti per poi disfarle), si rassomigliano quanto il gesso e il formaggio. Appartenere a una comunità  costituisce una condizione molto più sicura e affidabile, benché indubbiamente più limitante e più vincolante, che avere una rete. La comunità  è qualcosa che ci osserva da presso e ci lascia poco margine di manovra: può metterci al bando e mandarci in esilio, ma non ammette dimissioni volontarie. Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla nostra ottemperanza alle sue norme (sempre che una rete abbia norme alle quali ottemperare, il che assai spesso non è), e quindi ci lascia molto più agio e soprattutto non ci penalizza se ne usciamo. Però sulla comunità  si può contare come su un amico vero, quello che “si riconosce nel momento del bisogno”. (…) Ebbene: quei nomi e quelle foto che gli utenti di Facebook chiamano “amici” ci sono vicini o lontani? Ultimamente, un entusiasta “utente attivo” di Facebook si vantava di riuscire a farsi 500 nuovi amici al giorno, più di quanti ne abbia acquistati io nei miei 85 anni di vita. Ma come osserva Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, “la nostra mente non è stata predisposta (dall’evoluzione) a consentirci di avere, nel nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di persone”. Questo numero Dunbar l’ha addirittura calcolato, scoprendo che “un essere umano non riesce a tenere in piedi più di circa 150 rapporti significativi”. (…) Le “reti di amicizie” supportate elettronicamente promettevano di spezzare le recalcitranti limitazioni alla socievolezza fissate dal nostro patrimonio genetico. Ebbene, dice Dunbar, non le hanno spezzate e non le spezzeranno: la promessa può soltanto essere disattesa. «È vero», ha scritto lo studioso lo scorso 25 dicembre nella sua rubrica sul New York Times, «con la propria pagina di Facebook si può fare amicizia con 500, 1000, persino 5000 persone. Ma tutte, eccetto quel nucleo di 150, non sono che semplici voyeur che mettono il naso nella tua vita quotidiana». Tra quei mille amici su Facebook, i “rapporti significativi” – mantenuti per mezzo di un servizio elettronico oppure vissuti off-line – sono calmierati, come prima, dai limiti invalicabili del “numero di Dunbar”. Il vero servizio reso da Facebook e da altri siti “sociali” simili è dunque il mantenimento del nucleo di amici nelle condizioni del mondo attuale, un mondo ad elevata mobilità , che si muove in fretta e cambia rapidamente… (…) Dunbar ha ragione quando sostiene che i succedanei elettronici del rapporto faccia a faccia hanno aggiornato il retaggio dell’età  della pietra, cioè hanno adattato i modi e i mezzi dei rapporti umani ai requisiti della nostra nouvel à¢ge. Mi sembra però che trascuri un fatto, e cioè che nel corso di tale adattamento, quei modi e quei mezzi sono stati anche modificati in notevole misura, e di conseguenza anche i “rapporti significativi” hanno cambiato significato. Altrettanto deve aver fatto il contenuto del concetto di “numero di Dunbar”. A meno che tale contenuto non si esaurisca precisamente e unicamente nel numero. Il punto è che, indipendentemente dal fatto che il numero di persone con cui si può stabilire un “rapporto significativo” non sia variato nel corso dei millenni, il contenuto richiesto per rendere “significativi” i rapporti umani dev’essere cambiato in notevole misura, e in modo particolarmente drastico in questi ultimi trenta-quarant’anni… Esso si è modificato al punto che, come ipotizza lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, i rapporti considerati “significativi” sono passati dall’intimité all’extimité, cioè dall’intimità  a ciò che egli chiama “estimità “. (…) L’avvento della società -confessionale ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione squisitamente moderna che è la privacy – ma ha anche segnato l’inizio delle sue vertiginose cadute dalla vetta della sua gloria. Trionfo che si è rivelato una vittoria di Pirro, naturalmente, visto che la privacy ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma al prezzo di perdere il suo diritto alla segretezza, suo tratto distintivo e privilegio più caro e più gelosamente difeso. Analogamente ad altre categorie di beni personali, infatti, la segretezza è per definizione quella parte di conoscenza la cui condivisione con altri è rifiutata o proibita e/o strettamente controllata. La segretezza, per così dire, traccia e contrassegna i confini della privacy, essendo quest’ultima la sfera destinata ad essere propria, il territorio della propria sovranità  indivisa, entro il quale si ha il potere totale e indivisibile di decidere “che cosa sono e chi sono”, e a partire dalla quale si possono lanciare e rilanciare le campagne per far riconoscere e rispettare le proprie decisioni e mantenerle tali. In una sorprendente inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri antenati, però, abbiamo perso il fegato, l’energia e soprattutto la volontà  di persistere nella difesa di quei diritti, di quegli insostituibili elementi costitutivi dell’autonomia individuale. Quel che ci spaventa al giorno d’oggi non è tanto la possibilità  del tradimento o della violazione della privacy, quanto il suo opposto, cioè la prospettiva che tutte le vie d’uscita possano venire bloccate. L’area della privacy si trasforma così in un luogo di carcerazione, e il proprietario dello spazio privato è condannato a cuocere nel suo brodo, costretto in una condizione contrassegnata dall’assenza di avidi ascoltatori bramosi di estrarre e strappare i nostri segreti dai bastioni della privacy, di gettarli in pasto al pubblico, di farne una proprietà  condivisa da tutti e che tutti desiderano condividere. A quanto sembra non proviamo più gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti in grado di esaltare il nostro ego attirando l’attenzione dei ricercatori e degli autori dei talk-show televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle copertine delle riviste su carta patinata. (…). In Gran Bretagna, paese arretrato di cyber-anni rispetto all’Estremo Oriente in termini di diffusione e utilizzo di apparecchiature elettroniche di avanguardia, gli utenti forse si affidano ancora al social networking per manifestare la loro libertà  di scelta e addirittura lo ritengono uno strumento di ribellione e auto-affermazione giovanile. Ma in Corea del Sud, per esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già  abitualmente mediata da apparecchiature elettroniche (o, piuttosto, dove la vita sociale è già  stata trasformata in vita elettronica o cyber-vita, e dove la “vita sociale” per buona parte si trascorre principalmente in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa), ai giovani è del tutto evidente che non hanno neanche un briciolo di scelta: là  dove vivono, vivere la vita sociale per via elettronica non è più una scelta ma una necessità , un “prendere o lasciare”. La “morte sociale” attende quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del mercato sudcoreano in fatto di cultura show-and-tell. (…) I teenager equipaggiati di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti in formazione e formati all’arte di vivere in una società -confessionale, una società  notoria per aver cancellato il confine che un tempo separava pubblico e privato, per aver fatto dell’esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a coloro che si rifiutano di farle. (…) Essere membri della società  dei consumatori è un arduo compito, un percorso in salita che non finisce mai. Il timore di non riuscire a conformarsi è stato soppiantato dal timore dell’inadeguatezza, ma non per questo si è fatto meno tormentoso. I mercati dei consumatori sono bramosi di capitalizzare questo timore, e le industrie che sfornano beni di consumo si contendono lo status di guide/aiutanti più affidabili per i loro clienti, sottoposti allo sforzo incessante di essere all’altezza del compito. Sono i mercati a fornire gli “attrezzi”, cioè gli strumenti indispensabili per “auto-fabbricarsi”: un lavoro che ciascuno esegue da sé. E in realtà , le merci che i mercati rappresentano come “attrezzi” destinati a essere usati dai singoli per prendere decisioni non sono che decisioni già  prese. Quelle merci sono state approntate ben prima che il singolo si trovasse dinanzi al dovere (rappresentato come opportunità ) di decidere. È quindi assurdo pensare che quegli strumenti rendano possibile una scelta individuale delle finalità . Al contrario, essi non sono che cristallizzazioni di un’irresistibile “necessità ” che gli esseri umani, oggi come un tempo, sono tenuti a imparare, cui devono obbedire, e cui devono imparare a obbedire per essere liberi… Ma allora, lo strabiliante successo di Facebook non sarà  dovuto al fatto di aver creato il mercato su cui, ogni giorno, necessità  e libertà  di scelta s’incontrano? (Traduzione di Marina Astrologo)


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