Il valore della rinuncia

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Mustafa Abdul Jalil si è detto disponibile ad un cessate il fuoco. Vuole però che «nelle città  della parte occidentale del paese i libici godano di piena libertà  di espressione». Vuol la smilitarizzazione delle milizie e l’allontanamento dei mercenari. Vuole l’esilio di Gheddafi e della sua famiglia. Vuole molto, ma non vuole il potere ed è disposto a trattare e allora, come c’insegna ogni commerciante arabo, vuol dire che ha intenzione di accontentarsi di meno e rinunciare a qualche pretesa. Non è chiaro cosa lo induca a questa disponibilità  che pare quasi una resa. Forse ha capito che dopo la sfuriata iniziale, la comunità  internazionale è già  stanca. Che i suoi ribelli non ce la faranno mai da soli, che i suoi generali non sono all’altezza, che i consiglieri stranieri potrebbero presentare un conto molto salato da regolare in anticipo. Forse ha sempre cercato soltanto la separazione della Cirenaica e pensa che la guerra non risolverà  niente e che alla fine i potenti delle armi si accorderanno con i potenti del petrolio se non altro per fregare proprio lui. Forse pensa che Gheddafi ha troppe energie per essere battuto dai suoi ribelli e che se a vincere sono gli stranieri e non i suoi è come se avesse perso. Forse pensa troppo. O forse pensa soltanto come un avvocato patteggiatore. In guerra ogni esitazione è un regalo all’avversario, ma per batterlo non è necessario eliminare fisicamente tutte le sue forze: è sufficiente degradarle al punto che non producano più lavoro utile. Forse Jalil non sa che le forze di Gheddafi hanno già  raggiunto quel punto da alcuni giorni: l’energia cinetica che esprimono è sufficiente soltanto a spostarle da una parte all’altra purchè non ci sia attrito. L’energia residua di Gheddafi si può riversare solo sugli indifesi e i rinunciatari con i quali il Colonnello riesce ad essere feroce e sprezzante.


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