Islanda. Uscire dalla crisi, senza sudare

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Mente nell’Europa continentale i paesi vittime della crisi del debito moltiplicano impopolari piani di austerity, l’Islanda, che ha scelto di lasciar fallire le banche, si rimette lentamente in carreggiata. Il 9 aprile, inoltre, gli islandesi avranno la possibilità  di rifiutarsi di rimborsare i creditori internazionali della banca Icesave.

Una cattedrale di cemento nero e vetro ricoperta di alveoli rifrangenti in costruzione davanti al mare. Impossibile non notarla dalle strade di Reykjavik, tanto il cantiere è enorme rispetto a una città  dall’architettura poco elevata. L’Harpa, nato dalla fantasia del celebre architetto danese Olafur Eliasson, sarà  utilizzato come teatro dell’opera e sala congressi. Nonostante le voci che annunciavano la sospensione dei lavori, alla fine l’edificio sarà  inaugurato il prossimo 4 maggio.

Dopo il crack bancario dell’isola nell’ottobre del 2008, il gruppo Portus, principale investitore di un progetto che in principio sarebbe dovuto costare 74 milioni di euro, è stato costretto a chiedere aiuto al governo e alla marina di Reykjavik per evitare che il cantiere si fermasse. L’esecutivo non si è tirato indietro, così questa gemma dell’architettura vedrà  la luce del sole. Ma allora che fine ha fatto la crisi dell’Islanda?

Reykjavik, ancora scossa dallo scampato fallimento, non si è lanciata a capofitto nell’austerity. Contrariamente alle tendenze in voga nel continente, l’isola ha scelto di prendersi più tempo rispetto agli altri per portare a termine il risanamento del suo bilancio. Anche se alcuni progetti continuano ad andare avanti. I provvedimenti di risparmio puntano a portare il deficit al 10 per cento del pil in tre anni.

Niente a che vedere con un’altra isola, con la quale l’Islanda è spesso messa a confronto: l’Irlanda prevede di portare il proprio deficit dal 32 al 9 per cento nel corso del solo 2011. Oggi Reykjavik sostiene di aver riavviato la crescita economica (prevista al 3 per cento per l’anno in corso) e sta riducendo il debito senza forzare troppo la mano. Come ha fatto un’economia così minuscola (320mila abitanti) a rialzare la testa in appena due anni? Gli economisti avanzano tre diverse spiegazioni:

– La svalutazione della corona islandese. La valuta ha perso il 40 per cento a fine 2008, e le esportazioni di alluminio e pesce hanno ripreso slancio.

– Il principio del “too big to save” (troppo grosso per essere salvato). Si tratta dell’esatto opposto del “too big to fail” (troppo grosso per fallire) che ha prevalso finora negli Stati Uniti e in Europa, obbligando i governi a salvare le maggiori banche per evitare fallimenti a catena. In Islanda i bilanci delle tre principali banche dell’isola erano troppo grandi (fino a dieci volte il pil nel 2007) perché potessero essere salvate integralmente, e lo stato si è accontentato di riacquistare i conti “interni”, vale a dire i prestiti ai privati e alle imprese dell’isola. Gli azionisti hanno dovuto assumersi il carico delle perdite sui conti stranieri, i più cospicui.

– Un ricorso all’austerity meno rigoroso che altrove, deciso in accordo con le parti sociali. Un patto di stabilità  sociale è stato siglato nel 2009 per evitare le ripercussioni sulla società  islandese.

Se la ripresa avanza, trainata dalle esportazioni di un’economia molto aperta, le famiglie indebitate sono ben lontane dal riprendere fiato. I consumi arrancano, e restano al 20 per cento in meno rispetto ai livelli precedenti la crisi. Il tasso di disoccupazione è nuovamente sceso al 7 per cento dopo aver toccato quota 9,7 per cento. A ogni modo niente di paragonabile a quanto avviene in Irlanda, dove i senza lavoro sono più del 14 per cento.

C’è chi sta peggio

Sigridur Gudmunsdottir fa parte delle migliaia di islandesi vittime di una crisi di cui non hanno colpa. Aveva un “lavoro del 2007”, ovvero un impiego comodo e ben remunerato, specchio dell’euforia dei primi anni duemila. “Sentiamo dire che abbiamo festeggiato troppo, che abbiamo consumato troppo e chiesto troppi prestiti. Ma è falso: soltanto una piccola parte degli islandesi ne ha davvero approfittato”, dice Sigridur.

Licenziata nel momento peggiore della recessione, a cinquant’anni Sigridur è tornata tra i banchi dell’università . “Questo mi permette di ricevere gli aiuti agli studenti, che sono più elevati dei sussidi di disoccupazione”, spiega. Sigridur ha contratto nel 2006 un mutuo immobiliare da 68mila euro per acquistare una casa. In parte legato all’inflazione, il prestito è esploso dopo la crisi, arrivando a 86mila euro. Così alla fine di ogni mese la donna si è trovata sempre più in trappola: da una parte il volume del suo mutuo aumentava, dall’altra il valore reale della sua casa crollava.

Oggi Sigridur non sa ancora come riuscirà  a tirarsi fuori dai debiti, ma non si lamenta. “Alcuni islandesi sono in una situazione molto peggiore. Tutti quelli che avevano contratto mutui in valuta estera sono davvero nei guai”. In Islanda non ci si lamenta troppo. Dopo tutto la vita sulle isole è sempre stata dura. Partire come hanno fatto altri? “Impossibile, sono troppo legata alle mie radici”. La ripresa dell’Islanda? “Chiedete per strada. Non ci crede nessuno.”

Ascoltando le conversazioni a Reykjavik, appare evidente la spaccatura tra una classe politica convinta che la pagina della crisi sia stata voltata e i cittadini soffocati dal quasi fallimento dell’isola. Nell’Islanda del dopo crack si continua a parlare di pil e debito pubblico, che sembrano gli unici indicatori della politica attuale, qui come altrove in Europa. Ma dopo aver costretto alcune banche al fallimento e aver intrapreso la via dell’austerity “dolce”, sarà  meglio che Reykjavik si decida ad adottare strumenti e misure alternative per il bene della popolazione dell’isola. (traduzione di Andrea Sparacino)


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