Mezze verità , menzogne e fango ascesa e caduta del figlio di don Vito

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Dietro di lui c’è un puparo. E non è lo spirito di don Vito, il padre che dice di odiare anche nella tomba. Il puparo è chi lo ha scaraventato nella fossa di Palermo per imbrogliare indagini, disonorare galantuomini. È da quasi tre anni che il puparo tira i fili e Massimo Ciancimino a comando rovescia le sue accuse, a singhiozzo o tutte d’un fiato, sotto forma di memorie personali e testamenti paterni, colpendo generali e ministri, vecchi capi della polizia, procuratori che l’hanno inquisito e giudici che l’hanno giudicato. Ripassando i nomi che ha trascinato per le più diverse vicende nel suo delirio c’è praticamente lo stato maggiore che in Italia, negli ultimi anni, ha fatto la lotta alla mafia. Per la polizia il prefetto Gianni De Gennaro. Per l’Arma dei carabinieri il generale Mario Mori. Per la magistratura il procuratore nazionale Pietro Grasso, il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari. Nei suoi verbali questi personaggi compaiono come protagonisti di trattative o addirittura come complici di boss, qualcuno viene indicato come sponsor di Berlusconi e protettore di Cosa Nostra, qualcun altro come insabbiatore di inchieste. Chi ha aperto la bocca al pupo Ciancimino? Chi ha pilotato il figlio di don Vito in un labirinto di menzogne e verità  abilmente confuse, un centinaio di interrogatori, promesse di future confessioni, una consegna di documenti scandita dalle sue voglie, una marea di rivelazioni sulla strage di Ustica e il delitto Moro, sulla cattura di Totò Riina e la latitanza di Bernardo Provenzano, sugli investimenti mafiosi a Milano 2 e sul ruolo di ufficiale di collegamento avuto da Marcello Dell’Utri fra la politica italiana e la Cosa Nostra siciliana. Chi ha istruito il piccolo Ciancimino su tutto questo? Chi è il puparo? È evidente che dopo il suo fermo, il prossimo passo dell’indagine non potrà  che essere quello di cominciare un’altra indagine: scoprire chi l’ha manovrato. Ed è evidente che questo fermo rimette in discussione molte inchieste fondate sui suoi racconti. L’effetto rischia di essere devastante. Dopo avere riesumato i ricordi di suo padre sui misteri d’Italia, dopo avere messo una contro l’altra le procure siciliane, dopo avere paralizzato alcuni uffici giudiziari (chiamando in causa magistrati, per competenza le indagini si sono spostate – impantanandosi – da un distretto all’altro), il puparo e il pupo ad un certo punto hanno fatto un passo falso. È saltato fuori un nome che ha segnato l’inizio della fine della «super-testimonianza» di Massimo Ciancimino: il nome di Gianni De Gennaro. Sussurrato per mesi da «Massimuccio» alle orecchie dei giornalisti, pronunciato a bassa voce a qualche investigatore, insinuato ai pm in qualche interrogatorio, quando quel nome è stato accostato direttamente al «signor Franco» (un uomo degli apparati dello Stato che, secondo Ciancimino, sarebbe stato al fianco di don Vito per almeno 30 anni) si è decisa la sorte di questo pentito non pentito che ha tenuto in una morsa la Procura di Palermo per quasi tre anni. Troppo al di sopra di ogni sospetto De Gennaro, troppo eccellente, troppo inverosimile – al tempo delle stragi Falcone e Borsellino – la partecipazione dell’ex poliziotto a capo di tutte le spie d’Italia nell’intrigo della trattativa fra Stato e mafia. Il coinvolgimento di Gianni De Gennaro ha rappresentato la partita decisiva per Massimo Ciancimino e chi l’ha ispirato. O dentro o fuori. Come è andata a finire lo abbiamo capito. Prima sotto indagine per calunnia a Caltanissetta, poi la scoperta della contraffazione di un documento spacciato come originale e poi ancora il suo arresto. Il resto dell’affaire ci consegna il profilo perfetto di un rampollo di mafia diviso fra feste a Cortina e vacanze alle Eolie, i salotti romani, la scorta 24 ore su 24 (nonostante la richiesta di revoca del prefetto di Palermo Giuseppe Caruso), gli affari nell’est europeo e i weekend a Parigi con la moglie Carlotta. Fra un viaggio e l’altro tre anni di clamorosi annunci su misteriosi «capitani», agenti segreti in combutta permanente con i capi di Cosa Nostra. Pupo e star televisiva. E pure «icona dell’antimafia», come si è autodefinito lui stesso. Ormai lui si sentiva un intoccabile grazie alla sua «cantata». L’ultimo show, tre giorni fa al Festival del Giornalismo di Perugia. Anche lì ha parlato del superpoliziotto. Fra un ammiccamento e l’altro, ha intrattenuto il pubblico su «San Gennaro».


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