Coltelli, violenza e ricatti per Dsk una cella da 12 metri sull’isola dei dannati

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WASHINGTON – Era il padrone del mondo. Ora il suo mondo si è ristretto a 12 metri quadrati. Apriva e chiudeva il rubinetto dei soldi per salvare o condannare nazioni intere. Ora controlla soltanto il rubinetto del lavandino nella sua cella. E’ un naufrago tra naufraghi sull’isola dei dannati sull’East River, in attesa del traghetto verso il penitenziario o la libertà , Rikers Island, il più grande carcere di New York.
Dice chi c’è stato rinchiuso che il rancio faccia particolarmente schifo anche per un carcere. E quale castigo potrebbe essere più feroce per il detenuto francese, rampollo del sobborgo più chic di Parigi, Neuilly, per Dominique Strauss-Kahn, da lunedì rinchiuso in quella stessa “big house”, nel grande carcere dove furono buttati l’uccisore di John Lennon, Chapman, e il rapper Tupac Shakur, destinato poi a morire assassinato.
Così passa la gloria del mondo. Eppure, Strauss-Kahn ha ricevuto, anche se lui non se ne rende conto, un trattamento speciale dalle autorità  penitenziarie di New York: una cella individuale con doccia nel Block 12. Non è proprio la suite da migliaia di dollari a notte del Sofitel dalla quale è scappato in fretta verso l’aeroporto lasciandosi dietro anche lenzuola sporche del sangue di Ophelia, la cameriera che lo accusa di violenze brutali, come ora dice la polizia. Ma è migliore delle condizioni di vita dei 14mila suoi compagni di sventura che vivono ammassati su quest’isola sull’East River, tra il Queens e il Bronx, sotto il cono di rumore del decollo dall’aeroporto LaGuardia. Oppressa, come troppi istituti di pena, da più “ospiti” dei 10mila che dovrebbe alloggiare.
“The island”, l’isola, la chiamano a New York coloro che la vedono dalle finestre dei grattacieli di Manhattan esposti a nord-est, ma non la possono raggiungere, se non a bordo degli autobus che fanno la spola dalle rive passando sul ponte chiuso al traffico privato che da quarant’anni ha sostituito la carretta traghetto. Anche se non raggiunse mai la fama sinistra di Alcatraz, di Attica con le sue rivolte represse a sangue o di Sing Sing, quest’isola semi-artificiale, continuamente allargata dallo Stato di New York per costruire altre baracche fino a 170 ettari – un milione e 700mila metri quadrati – ha assunto, per la città , per il suo sottobosco criminale, per i 10mila agenti penitenziari che ne sono prigionieri quanto coloro dovrebbero sorvegliare, uno status tragicamente leggendario.
E’ l’isola di un futuro che nessuno vuole abitare e basta, senza il nome del proprietario terriero olandese, Riker, che la vendette al governo per farne una base militare nel ‘700.
E’ il piccolo regno di tutto l’orrore carcerario che periodicamente affiora nella coscienza pubblica per un delitto, un’inchiesta, una denuncia e poi sprofonda, tra brutalità  e ricatti, pestaggi di bande contro bande e lampi di “shiv”, lame affilatissime e improvvisate ricavate persino dalle guaine delle batterie, contrabbando ed esecuzioni sommarie, suicidi e violenze sessuali.
Proprio per evitare al “Re Sole” decaduto almeno il contrappasso di quelle stesse violenze che lui è accusato di avere inflitto a Ophelia, gli è stata riservata una cella individuale e un controllo personale 24 ore su 24. Lo seguiranno, con una sorta di guardia del corpo, anche nell’ora d’aria, perchè mancherebbe soltanto la coltellata alle spalle con lo “shiv” appuntito, il pestaggio, la violenza carnale per detonare quest’altra crisi fra Usa e Francia, sempre pronte a rinfacciarsi le opposte superiorità  culturali e a innescare qualche altra fantasia complottista.
Sull'”isola” si uccide per una stecca di sigarette, una dose di “roba”, persino un cheeseburger, se si è uno degli ergastolani condannati senza possibilità  di liberazione. E tutti sanno che nelle galere, dove la gerarchia del crimine commesso è precisa, molestatori di bambini, serial killer, stupratori sono considerati la feccia immonda. Non aiuterebbe certamente l’ex “Re Sole” il sospetto di avere violentato e brutalizzato una immigrata africana, una senegalese, in un carcere dove un detenuto su cinque è un immigrato e l’80 per cento ha la stessa pelle della vittima.
Fa paura ai suoi custodi che lo avranno almeno fino a venerdì, quando l’implacabile giudice donna dai capelli rossi e dal nasino a prua di incrociatore che gli ha negato la cauzione dovrà  riesaminare il carcere preventivo e – nella consueta rapidità  delle procedure – soprattutto lui, Dominique. Quello sguardo perduto, quell’espressione stupefatta e molto probabilmente sedata farmacologicamente, quella incredulità  che poi improvvisamente si frantuma nella coscienza del luogo e delle circostanze, hanno fatto pensare Martin Horne, responsabile degli istituti di detenzione a New York e ai servizi psichiatrici del carcere, dove il 28% degli ospiti è in cura per gravi disturbi mentali, a un possibile suicidio. Rikers Island è soprattutto un carcere di transito, dove vengono immagazzinati gli arrestati e i rinviati a giudizio in attesa di processo o di cauzione. Ed è nel momento della verità , quando si rendono conto ed escono dallo shock iniziale, che arriva per loro il momento più pericoloso. La tentazione finale.
L'”isola delle anime perdute” è un luogo di grida, di rumore, di freddo e di caldo, di clangore di suppellettili battute contro le sbarre, di collera continua, notte e giorno. Una bolgia nella quale è spesso impossibile distinguere chi siano i demoni e chi siano i dannati.
Squadre di detenuti quasi sempre giovanissimi furono ingaggiati in segreto come kapò dalle guardie per imporre l’ordine del più violento. Lo chiamavano “the program”, il programma e i tre agenti che lo avevano organizzato, guidati da una donna conosciuta come “Ma”, la mamma, furono arrestati e condannati. Era illegale, era contro ogni diritto costituzionale e umano. Ma i colleghi di “Ma” testimoniarono al processo che la sola forma di disciplina sull'”Isola” è mantenuta dai prigionieri stessi e sono loro, le guardie, a essere sorvegliate e tallonate dai detenuti notte e giorno, per cercare di corromperle. «Basta che un secondino accetti di portare dentro di nascosto un cheeseburger di MacDonald’s perchè sia finito. Sarà , da quella violazione disciplinare in poi, per sempre nel pugno dei carcerati, che lo ricatteranno con richieste sempre più gravi».
Al “Grand commis” della Repubblica Francese, a colui che aveva a portata di mano uno dei più bei palazzi del mondo, l’Eliseo, i pasti, per ripugnanti che siano, saranno serviti in cella, per evitare anche il contatto con gli altri nella mensa. Room service, proprio come al Sofitel. Il pane a cassetta, almeno quello, è cotto e sfornato nelle cucine del carcere, anche se non è una baguette fragrante. Ma non sarà  una graziosa camerierina indifesa a portarglieli questa volta in camera.


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